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“Mio povero vecchio”, la poesia di Cesare Pavese che racconta la disillusione attraverso l’attualità

Scopri come Pavese racconta la delusione della vita in questa struggente poesia, attraverso un parallelo attuale.

Nell’inverno del 1927 Cesare Pavese dava vita a “Mio povero vecchio”, un componimento triste, profondo, struggente, che racconta il sentimento di estraneità alla vita e di disillusione nei confronti del reale.

Racchiusa nella raccolta “Rinascita”, che contiene i versi composti da Pavese fra il 1926 e il 1927, questa poesia è quasi un racconto, uno spaccato di vita reale che ci induce a riflettere sul nostro rapporto con l’individualità ed il mondo.

Mio povero vecchio, la poesia di Cesare Pavese

Mio povero vecchio
che in questa notte nebbiosa d’inverno,
sotto il freddo atroce,
dormi sotto il portico della grande piazza,
disteso sulla grata
di una cantina,
che ti regala un po’ di caldo, e sei tutto lungo, attrappito

nella coperta sudicia dei tuoi cenci e della tua gran barba
come une nero cadavere informe,
e sogni avidamente sotto gli spruzzi di neve fangosa
uno di quei cibi meravigliosi
che hai veduto stasera nella vetrina splendente
mio povero vecchio,
che non hai nulla al mondo,
se non quel sogno tiepido e un odio disperato,
io mi struggo di essere come te,
io che vengo da tanto più lontano,
ma che ho nel cuore il tuo odio
e sogno i tuoi stessi sogni.

Verrà una notte, forse domani,
che m’accascerò come te
sotto la nebbia in una via deserta,
colla tempia spaccata,
e sognerò l’ultima volta in quell’istante
un cibo meraviglioso
che anch’io ho veduto in una vetrina splendente,
un cibo che tu non capiresti,
perché io vengo da troppo più lontano,
un cibo indicibile di sogni
deliranti, sognati sopra un volto
e un corpo, pieni d’anima e di luce.

Un gran cielo di sogni
inaccessibile alla realtà,
fatto di colori struggenti
pallidi tiepidi, rapimenti di tenerezza,
rotto da urli di arte e di passione
e da voci sommesse
come le cose più segrete,
un mondo che sia tutta l’esistenza
di quel suo corpo e quei suoi grandi occhi nudi.
Cadere nella nebbia e dentro il fango
colla tempia spaccata,
o mio povero ignoto mendicante,
come sei disteso tu ora,
e sognare il mio sogno.

Perché noi abbiamo in cuore
la stessa stanchezza
e lo stesso odio disperato
contro la vita che non può mutare
e lascia me nell’orrore del buio
e te nel morso gelido e digiuno.
Perché solo nel sogno e nella morte,
o mio povero vecchio,
noi possiamo trovare noi stessi.

Il sogno e la morte

In “Mio povero vecchio”, Cesare Pavese crea un parallelismo fra un senzatetto e sé stesso:

“Mio povero vecchio
che in questa notte nebbiosa d’inverno,
sotto il freddo atroce,
dormi sotto il portico della grande piazza”

L’uomo senza nome né volto, di cui conosciamo approssimativamente solo l’età, sperimenta il gelo del clima e delle persone ogni giorno, ed è assimilato ad un “nero cadavere informe”, a cui non restano che “un sogno tiepido e un odio disperato”.

“Io mi struggo di essere come te,
io che vengo da tanto più lontano,
ma che ho nel cuore il tuo odio
e sogno i tuoi stessi sogni”.

Anche il poeta si sente come il senzatetto. Benché le sue condizioni di vita siano molto differenti rispetto a quelle del vecchio, anche lui sperimenta il freddo del mondo, si sente senza rifugio, e non ha che le illusioni. Sogna un cibo diverso, “un cibo indicibile di sogni/ deliranti”, inaccessibile, irraggiungibile.

“Perché noi abbiamo in cuore
la stessa stanchezza
e lo stesso odio disperato
contro la vita che non può mutare
e lascia me nell’orrore del buio
e te nel morso gelido e digiuno”.

Nella poesia di Pavese la vita non lascia spazio al cambiamento. “Non può mutare”, non ha la capacità di illuminare i due uomini con uno sprazzo di felicità. Per quella, c’è spazio solo nel sogno, e nella morte.

Cesare Pavese

Cesare Pavese (1908-1950) è senza ombra di dubbio uno degli autori più importanti della letteratura italiana, uno scrittore e poeta che merita di essere scoperto e apprezzato anche dai lettori contemporanei.

Considerato uno degli interpreti più significativi del Novecento, Cesare Pavese ha raccontato nei suoi romanzi e nelle sue poesie, molte delle quali pubblicate postume, la realtà popolare e contadina, ma con uno sguardo sempre rivolto altre letterature europee. Fu tra i primi a interessarsi alla letteratura statunitense, di cui fu anche traduttore.

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