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“Lavandare”, la poesia di Pascoli che osserva la solitudine

Il 31 dicembre del 1855 nasceva uno dei più importanti poeti italiani: Giovanni Pascoli. Lo ricordiamo attraverso "Lavandare", un bellissimo componimento racchiuso nell'edizione del 1984 di "Myricae".

“Lavandare” è uno dei componimenti più conosciuti ed amati di Giovanni Pascoli, poeta di cui domani ricorre l’anniversario di nascita. La poesia, che descrive come in un affresco una campagna malinconica e solitaria, appartiene alla sesta sezione della raccolta “Myricae”, a cui è stata inserita a posteriori nell’edizione del 1984.

“Lavandare” di Giovanni Pascoli

Nel campo mezzo grigio e mezzo nero
resta un aratro senza buoi, che pare
dimenticato, tra il vapor leggero.
E cadenzato dalla gora viene
lo sciabordare delle lavandare
con tonfi spessi e lunghe cantilene.
Il vento soffia e nevica la frasca,
e tu non torni ancora al tuo paese!
Quando partisti, come son rimasta!
Come l’aratro in mezzo alla maggese.

Osservare la solitudine

In “Lavandare”, Giovanni Pascoli si fa osservatore attento della realtà che lo circonda. La scena che descrive è quella che vede, un campo ingrigito dalla stagione in mezzo al quale campeggia un aratro abbandonato. Ad incorniciare il panorama c’è un lontano suono di panni immersi e sbattuti da donne, le lavandare appunto, che accompagnano il ritmico lavoro intonano cantilene in prossimità di un canale. La figura dell’aratro nella visione di Pascoli rappresenta l’inutilità e l’abbandono. Senza buoi, infatti, lo strumento non può lavorare. A sottolineare il senso di abbandono è anche l’assenza di figure umane. La riflessione sulla solitudine torna con il testo della cantilena riportato dove la donna sente la mancanza del lontano amato.

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Giovanni Pascoli

Giovanni Pascoli nasce il 31 dicembre 1855 a San Mauro di Romagna, da una famiglia agiata. Il padre, Ruggiero, è fattore presso una delle tenute dei principi di Torlonia. La famiglia è molto numerosa: Giovanni è, infatti, il quarto di dieci figli.

L’infanzia di Giovanni Pascoli trascorre in modo abbastanza sereno fino al 10 agosto 1867, quando una tragedia colpisce la casa: mentre torna dal mercato di Cesena, il padre di Giovanni Pascoli viene ucciso da alcuni spari. Comincia così un periodo di tristezza e difficoltà economiche, culminato con il trasferimento a San Mauro e poi a Rimini, dove il fratello maggiore di Giovanni ha trovato un ottimo lavoro.

Intanto, però, i lutti si susseguono rapidamente: nel 1868 muoiono la madre e la sorella maggiore, nel ’71 il fratello Luigi, nel ’76 Giacomo. Nonostante le grandi difficoltà economiche, Giovanni Pascoli riesce a completare i suoi studi classici e ad iscriversi alla facoltà di lettere con una borsa di studi all’Università di Bologna.

Gli anni universitari sono un po’ turbolenti: il giovane partecipa a manifestazioni socialiste contro il governo e nel 1979 viene arrestato. La permanenza per qualche mese in carcere segna il definitivo distacco dalla militanza politica.

Da questo momento in poi, Giovanni Pascoli si dedica esclusivamente alla poesia e alla sua famiglia, in particolare alle due sorelle Ida e Mariù, con cui vive a Massa dal 1884, per ricostruire il nido familiare distrutto dai lutti. Nel 1887 la famiglia si trasferisce a Livorno, dove Giovanni Pascoli ottiene l’incarico di insegnante.

Le nozze di Ida e un nuovo incarico, stavolta come insegnante all’Università, stravolgono un’altra volta la vita del poeta, che si trasferisce con Mariù prima a Bologna e poi a Messina, dove ottiene l’incarico di professore di latino nell’ateneo siciliano. Nel 1905, infine, viene nominato professore di letteratura italiana all’Università di Pisa, sostituendo il suo stesso maestro, Giosuè Carducci.

Gli ultimi anni sono per Pascoli anni schivi e impegnati soprattutto nella scrittura. È ormai un poeta noto agli italiani. Scrive discorsi pubblici e componimenti patriottici. Muore il 6 aprile 1912 a causa di un tumore allo stomaco.

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