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Primo Levi racconta la Shoah tra sogno e realtà

Quanto possono essere crudeli i sogni? Ce lo racconta Primo Levi nella poesia “Alzarsi”, un componimento in cui la tragedia della realtà fa incursione nel sogno, devastandolo.

Il 27 gennaio di ogni anno, in quella che è stata denominata Giornata della Memoria, ricordiamo le vittime della Shoah, una delle tragedie più grandi e terribili che siano mai state perpetrate nel corso della storia.

Per l’occasione, vogliamo proporvi una struggente poesia scritta da Primo Levi nel 1946, appena tornato dopo un lungo e faticoso viaggio che lo ha riportato nella sua Torino, che ai suoi occhi, mutati dall’orrore della Shoah, non sarà mai più quella di prima.

Wstawàc

“Alzarsi” fa quasi da cerniera fra le due opere in prosa principali dell’autore: “Se questo è un uomo” e “La tregua“. Nella poesia di Primo Levi dedicata alla Shoah non ci sono artifici sorprendenti: la semplicità della paratassi, le anafore che fluiscono lungo i versi, le due strofe antitetiche che si riferiscono a due tempi diversi fanno da contorno alla parola che costituisce la protagonista assoluta del componimento, che infatti da qui prende il titolo: “wstawàc”. Un termine straniero che sembra quasi staccarsi dal resto del testo per rotolare giù come un macigno.

“Wstawàc” significa “alzarsi”. Con questa breve parola tonante, gli ufficiali nazisti svegliavano i prigionieri dei campi di concentramento, irrompendo nei loro sogni e decretando l’inizio di un’altra lunga e sofferente giornata. In “Alzarsi”, Primo Levi racconta, una volta tornato dai campi dell’orrore, l’esperienza vissuta. Decide di farlo con una poesia che si costruisce attorno ad una prima strofa dedicata al sogno e al ricordo, mentre la seconda è legata al presente, alla casa che dopo tutte le tempeste e la morte non è più il luogo di sempre, non delinea più i confini di un rifugio sicuro, lontano dalla violenza e dalla barbarie.

Così come non è sicuro il sogno del prigioniero dei campi, un sogno “umano troppo umano”, che riflette i desideri più materiali degli uomini, afflitti dalla prigionia e dalla reificazione messa in atto dai nazisti:

“Sognavamo nelle notti feroci
sogni densi e violenti
sognati con anima e corpo:
tornare; mangiare; raccontare”.

Penseremmo al sogno come ad una realtà parallela ritenuta sicura e confortante dai prigionieri della Shoah. Invece, il dolore e l’odio arrivano fino a lì. Superano la barriera dell’onirico e occupano ogni spazio della mente e del cuore, tanto che nemmeno a casa Primo Levi si sente più al sicuro. Anche lì, aspetta il fragore del risveglio in tedesco.

Alzarsi di Primo Levi

Sognavamo nelle notti feroci
sogni densi e violenti
sognati con anima e corpo:
tornare; mangiare; raccontare.
Finché suonava breve sommesso
il comando dell’alba:
“Wstawàc”:
e si spezzava in petto il cuore.

Ora abbiamo ritrovato la casa,
il nostro ventre è sazio,
abbiamo finito di raccontare.
È tempo. Presto udremo ancora
il comando straniero:
“Wstawàc”.

Primo Levi

Primo Levi nasce a Torino il 31 luglio 1919, da una famiglia di origini ebraiche sefardite. Il padre, ingegnere elettronico, lavora lontano da casa ma, pur essendo praticamente assente nella vita del figlio, gli infonde la passione per le scienze e la letteratura. Trascorre un’infanzia tranquilla, eccezion fatta per i problemi di salute che arrivano di frequente. Si iscrive al ginnasio e poi all’università, portando a termine il percorso di studi in chimica e laureandosi nel 1941.

A questo punto, la Storia entra prepotente nell’esistenza di Primo Levi, un giovane con tutta la vita davanti. Come tante altre persone innocenti, anche lui viene deportato in uno dei campi di concentramento ideati da Hitler. Prima viene mandato a Fossoli, uno dei due campi esistenti in Italia. Poi, viene trasferito a Buna-Monowitz-Auschwitz, dove resterà fino al 26 febbraio 1945, giorno in cui avviene la liberazione dei detenuti superstiti dal campo.

Ciò che permette a Primo Levi di sopravvivere alle sofferenze – fisiche e morali – di cui è testimone ogni giorno, è proprio la laurea in chimica. Il giovane, infatti, viene adoperato in qualità di “specialista” in una fabbrica di gomma. Al termine di questa terribile esperienza, l’uomo torna in Italia dopo un viaggio estenuante – raccontato nel libro “La tregua” – e sente l’urgenza di dover comunicare a tutti ciò che ha visto e provato durante gli anni di detenzione. Dalla penna di Primo Levi è uscito, così, “Se questo è un uomo”, un capolavoro della letteratura mondiale che è stato tradotto in moltissime lingue e ha commosso chiunque lo abbia letto.

Così, Levi ha continuato a scrivere e scrivere, raccontando le sue esperienze ma rendendole universali. “La tregua”, “Il sistema periodico”, “I sommersi e i salvati”, “L’ora incerta” sono solo alcune delle opere che ha scritto esplorando, sempre con successo, diversi generi letterari ma non riuscendo mai a superare del tutto la terribile sofferenza vissuta ad Auschwitz.

Muore l’11 aprile 1987 nell’atrio del palazzo in cui ha sempre vissuto.

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