Nel suo celebre thriller Io uccido, Giorgio Faletti ci consegna una riflessione che va ben oltre la narrazione del crimine e dell’indagine. In una frase, contenuta tra le pieghe della trama, l’autore scolpisce una verità disarmante sul modo in cui gli esseri umani percepiscono e vivono la storia. L’illusione di progresso, di rottura con il passato, di novità assolute, viene messa in discussione da un meccanismo profondo e ripetitivo: quello della sostituzione di persone all’interno di ruoli sempre uguali. Gli attori cambiano, ma la scena e il copione sembrano ripetersi in modo ciclico.
“L’uomo pensa che le storie si ripetono all’infinito. A volte paiono concludersi e invece no, sono solo i protagonisti che si avvicendano. Gli attori cambiano ma i ruoli rimangono sempre gli stessi.”
Questa visione richiama, da un lato, l’antico concetto del panta rei eracliteo – tutto scorre – ma lo capovolge: in realtà, ciò che scorre non è il fiume, ma chi vi si immerge. Il letto del fiume, invece, resta uguale, eterno, immutabile. Le strutture profonde della storia umana, sembra dirci Faletti, si ripropongono, come maschere di un dramma che nessuno ha mai finito di scrivere, ma che tutti recitano inconsapevolmente.
Giorgio Faletti e il tempo
L’idea che le storie si ripetano non è nuova. Già gli storici dell’antichità, da Tucidide a Polibio, avevano osservato come i cicli di ascesa e declino delle civiltà sembrassero replicare meccanismi comuni. In epoca moderna, tuttavia, la narrazione dominante ha abbracciato un’idea di progresso lineare: si crede che l’umanità evolva in direzione di un miglioramento continuo, morale e tecnico. Ma la citazione di Faletti introduce un’ombra in questo racconto ottimistico: ciò che cambia è la faccia delle persone, non i drammi che esse interpretano.
Il tradimento, l’ambizione, l’amore, la vendetta, la giustizia, la paura – questi sono i ruoli, gli archetipi che si ripetono. Da Caino e Abele ai drammi familiari dei nostri tempi, da Cesare pugnalato dai suoi a leader moderni rovesciati dai loro collaboratori, da eroi che salvano vite a boia che le distruggono. Ogni generazione è convinta di vivere qualcosa di inedito, ma spesso non fa che recitare un copione già visto, indossando solo un costume diverso.
Cambiano i volti, non le pulsioni
La letteratura e il teatro sono maestri nel mostrarci questa verità. Shakespeare scrisse drammi politici e passioni private che ancora oggi riconosciamo nei nostri contemporanei. Lo stesso vale per i miti greci: Medea, Edipo, Antigone ci parlano di conflitti eterni. Giorgio Faletti, da scrittore e uomo di spettacolo, coglie questa eredità e la rilancia nel cuore del suo romanzo noir, dove la tensione narrativa si intreccia con riflessioni esistenziali.
“I ruoli rimangono sempre gli stessi”, scrive Giorgio Faletti. Ma cosa significa questo, se non che l’essere umano è prigioniero di una struttura profonda che lo precede e lo supera? Possiamo cambiare nome, cultura, nazione, ma il ruolo che interpretiamo – la gelosia, la rivalsa, l’orgoglio, la pietà – resta simile. Le guerre si fanno per ideali nuovi, ma si combattono sempre per potere, per dominio, per sopravvivenza. I delitti assumono forme nuove, ma la radice dell’odio o della disperazione è la stessa da millenni.
Una riflessione sul tempo presente
Questa visione fatalistica può apparire scoraggiante. Ma forse è anche una chiamata alla consapevolezza. Riconoscere che i ruoli si ripetono è un modo per interrogarsi su come possiamo uscire dalla recita inconsapevole. Se sappiamo di vivere in una storia già scritta, possiamo provare a cambiarne il finale, anche solo per una battuta. L’arte, la cultura, l’educazione servono a questo: a interrompere il ciclo, a riscrivere la scena.
Nel nostro tempo, dominato da crisi ricorrenti, da scontri politici che sembrano eco del passato, da violenze private e pubbliche che si replicano senza tregua, le parole di Giorgio Faletti risuonano come un ammonimento. I volti dei protagonisti cambiano – ogni epoca ha i suoi carnefici e i suoi redentori – ma se non mettiamo in discussione i ruoli che ci assegniamo, non faremo che perpetuare un destino cieco.
La citazione di Giorgio Faletti ci spinge a guardarci allo specchio e a chiederci: quale ruolo stiamo interpretando? Siamo spettatori passivi o attori consapevoli? Abbiamo scelto la nostra parte o ci è stata assegnata da un copione scritto da altri? Riconoscere che la storia tende a ripetersi non significa arrendersi all’inevitabile, ma comprenderlo per agire meglio.
Se i ruoli rimangono gli stessi, forse spetta a noi umani cambiare almeno l’intenzione con cui li recitiamo. Se l’amore e l’odio sono forze eterne, possiamo almeno scegliere da quale parte stare. E se la storia è un teatro, possiamo decidere – ogni giorno – se contribuire alla tragedia o alla redenzione. Giorgio Faletti ci affida questa possibilità, nascosta in una frase che vale ben più del suo peso narrativo: è una lezione di coscienza.