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‘Un paradiso triste’, romanzo metafora della vita di ognuno di noi

Io gli scrittori li distinguo così: quelli che leggendoli mi fanno pensare 'ecco è proprio vero, e che cioè mi danno la conferma di 'come' so che in genere sia la vita...

Pubblichiamo la recensione di Ida Cimmino per la precisione e l’ estrema profondità nell’analisi del testo di Tanzj

 

“Io gli scrittori li distinguo così: quelli che leggendoli mi fanno pensare ‘ecco è proprio vero’, e che cioè mi danno la conferma di ‘come’ so che in genere sia la vita. E quelli che mi fanno pensare ‘perdio, non avevo mai supposto che potesse essere così’, che cioè mi rivelano un nuovo particolare ‘come’ sia della vita”, così affermava Elio Vittorini e potremmo spingerci a sostenere che se un libro non apre un nuovo squarcio sul ‘come’ sia la vita, tutto sommato può non valere la pena leggerlo. Se sia lecito imbrattare pagine per confermare e replicare quanto è già stato detto, e forse meglio, da altri, non è dato qui disquisire, ma nel caos immenso del pubblicato, oggi sono veramente pochi i libri per i quali è valida la seconda parte dell’affermazione di Vittorini: tra questi, senza alcun dubbio, trova posto ‘Un paradiso triste’ di Francesco Paolo Tanzj.

Un titolo ossimorico, come afferma Ida Di Ianni, che prelude un romanzo sostanzialmente di ricerca di equilibrio che, anche quando raggiunto (paradiso), ha in sé insita una precarietà (triste). Per Antonio Spagnuolo il titolo è richiamo alla solitudine dei tre personaggi descritti, incapaci di riordinare le loro esistenze. Giuseppe Napoletano, infine, vi scorge il richiamo “ad una dimensione privata e appagante in quanto tale” . Ed aggiunge “Il desiderio di solitudine nasce poi come reazione all’opprimente mondo di relazioni che ci costringe ad avere sempre una maschera di circostanza”

Giuseppe Panella ha giustamente affermato, nella sua recensione, che Tanzj ha apparentemente scritto un libro che parla di scuola, oltretutto:“Francesco Paolo Tanzj detesta i libri di argomento scolastico (lo ha dichiarato lui stesso!); mal sopporta le ironie sui professori così come pullulano nei libri che ricompattano questo ormai consolidato genere letterario (e che vanno dai romanzi del pur bravo Domenico Starnone a quelli del mediocre e ripetitivo Marco Lodoli); teme che la saturazione al riguardo porti all’enfatizzazione e alla ghettizzazione di questioni altrimenti tragicamente serie riducendole in un’ottica di lettura che con la scuola non ha più nulla a che vedere”.

In realtà la complessa architettura del romanzo, la scelta dei tre io narranti (cui sempre si accostano almeno altri tre personaggi secondari), l’intreccio magistralmente orchestrato delle tre vite che si intessono, si espandono e ritraggono secondo logiche interne congegnate dall’autore, sembra trovare il proprio baricentro non tanto nella scuola (luogo-pretesto, castello in cui i destini si incrociano, si intrecciano e, a volte, si risolvono, giacché ciò che interessa l’autore è il luogo recondito dell’animo umano), quanto nella generazione sandwich, quella che ha distrutto il passato, senza però trovare l’equilibrio giusto per costruire un futuro concretamente alternativo, e che ha prodotto i suoi Giulio pericolosamente pendenti verso il nichilismo.

L’abilità narrativa di Francesco Paolo Tanzj sta nel tratteggio delle tre voci e nella ricostruzione dettagliata e reale delle loro vite, confuse e precarie, delle elucubrazioni notturne (magistrale il percorso nell’animo di Giulio nel capitolo La Notte, che cesura le due parti del romanzo), degli incontri casuali, delle strade percorse, del traffico, delle linde casette borghesi che nascondo tragici fallimenti coniugali (o presunti tali).

E dunque, c’è un professore, Ferri,  che insegna in un liceo di Roma, (che non è Roma, né alcun’altra città), non uno qualsiasi, uno che pretende (e lo fa capire benissimo Giulio nel corso dei suoi pensieri), di insegnarti la vita, che vuole aprirti nuovi spazi, che fa della filosofia il luogo in cui consentire ai ragazzi di interpretare il mondo, riflettere, gettare una chiave che apra lo spiraglio, che ha l’assurda pretesa di sognare “ad occhi aperti un luogo di crescita collettiva, nel quale alunni e docenti seguano insieme i percorsi di un’educazione continua al vivere civile” che vuole una scuola controcorrente, tesa a fornire modelli alternativi. “Si dice spesso che la scuola deve servire a far inserire i giovani nella società. A me sembra quasi il contrario. Se i modelli imposti dalla società sono quelli televisivi, o della moda, o dell’arrivismo, o di un cinismo materialistico sempre più pronunciato e privo di riferimenti morali o ideali, allora la scuola deve sforzarsi di resistere al ‘cattivo spirito del tempo’ e fornire invece alle nuove generazioni le armi culturali per costruirsi uno spirito critico, libero dalle convenzioni […] per rendersi protagonista di una nuova progettualità dialettica e progressiva, fondata sulla conoscenza di sé e del mondo circostante”. Un professore che “avverte la spinta impulsiva a scappare,”come rivela Napolitano, a cambiare corso all’esistenza, (tanto da fargli citare Pirandello). D’altra parte, il professor Ferri dice “la scuola mi diverte” e pare che lo dica nel senso pascaliano, cioè la scuola gli consente di uscire dalla vita abituale, gli offre una dimensione in cui giocare a proprio agio,” svoltare in altre dimensioni esistenziali, cioè de-vertere, alla latina, è quello che il filosofo Pascal, uno dei più citati nel libro, chiamava divertissement”.

C’è poi uno studente, Giulio, non uno qualsiasi, ma uno assetato, sensibile, ritratto in momento di precarietà estrema, quella di quasi tutti i ragazzi della sua età, quella che Tanzj conosce e riconosce benissimo perché la pratica ogni giorno come docente (e non sbaglia Spagnuolo a riconoscere a Tanzj “un’ eccellente dose di competenza e di esperienza” nella perizia con cui tratta argomenti scottanti che riguardano i giovani, attingendo all’esperienza professionale e trasferendola sulla pagina) che vuole “essere lasciato in pace di fare  o non fare quello che mi va, e vedermela per i fatti miei”. Un ragazzo che di sé dice “Non ho aspirazioni, tranne quella di vivere giorno dopo giorno e divertirmi , e soprattutto non farmi problemi inutili. Sto pensando un po’ incazzato a tutto questo,… poi quella sensazione di merda dentro di me, quella voglia di non so cosa, che non capisco e che mi fa venire il groppo in gola. Io vorrei poter volere bene a tutti: sono gli altri che me lo impediscono…”. Giulio è avvolto da un latente nichilismo che lo spinge al totale rifiuto del mondo e della vita:“E’ incredibile l’angoscia che provo. Vorrei non esserci. Sparire. Disintegrarmi. Anzi, non essere mai esistito!”. Ci penserà Susy, una ragazza cui egli non sperava di avvicinarsi, ed un incontro casuale, ad aprirgli le ali verso un nuovo respiro di vita.

C’è infine la madre di Giulio, Gabriella,  che Antonio Spagnuolo nella sua recensione ha definito “compressa e schiacciata dal sentimento di fallimento generale” come madre, moglie, donna.  Una donna che ha cercato affannosamente un equilibrio nel proprio nucleo familiare facendone  “un mix dei principi migliori del ’68 – ma senza eccessi e fallimenti – e dei valori senza tempo  conservati in giusta misura da famiglie sostanzialmente sane ed equilibrate. Con tanta cultura che si respirava nei libri, negli interessi, e nelle amicizie stimolanti, nella musica, nei quadri, e nei mille oggetti raccolti nei viaggi, nelle atmosfere giuste in ogni angolo di una casa amata e vezzeggiata come fosse una persona viva”, un equilibrio provvisorio di difficile riuscita, soprattutto se da condividere con un eterno Peter Pan che non ha alcuna intenzione di abbandonare i suoi sogni (il marito, padre di Giulio, una delle figure sfondo).

I tre io narranti, afferma ancora Spagnuolo, “si costruiscono nel modello provvisorio della loro esistenza” fatto di silenzi, di complesse rielaborazioni, di spazi angusti dell’io o di improvvisi squarci di chiarificazione, magistralmente orchestrati dal tratto originale e fresco dell’autore. Le tre vite si toccano, si dipanano intorno al luogo-pretesto della scuola, per poi sciogliersi, ciascuna per la propria strada, in un nuovo equilibrio, precario quanto il primo, ma aperto ad una nuova possibilità. Delle tre esistenze quella del professore risulta essere, in qualche modo, demiurgica: è infatti da lui che si districano le risoluzioni dei singoli problemi (i colloqui con Giulio e con Gabriella sua madre, con la stessa Susy, neo fidanzatina del ragazzo). Ferri è una sorta di curatore di anime che nell’operare trova, alla fine, la sua stessa pacificazione, pur restando involto in quella sorta di acuta sensazione di intasamento, di eccesso di attivismo, di agitarsi a vuoto e senza senso, consapevole però, di non essere capace di fare altrimenti, senza conoscerne a fondo il motivo, e sentendo acuto il desiderio di ritornare, probabilmente in sé.

Egidio Cappello ha colto nel romanzo tutta la valenza profondissima di una meditazione filosofica dell’uomo che “scopre se stesso, si scopre capace di passare dalla quotidianità alla universalità che gli è propria” vicino a quel Blaise Pascal, citato nell’opera, “nella premessa che l’uomo è piccolo e grande nello stesso tempo, che la quotidianità è piccola e grande nello stesso tempo”. Per Cappello l’evoluzione di Giulio all’interno del romanzo è tutta in quella sensazione di “non bastare più a se stesso” e di “essere insufficiente”, un rifiuto del soggettivismo ed un’apertura al dialogo, alla relazione, al confronto. Il dolore di Giulio è apertura verso la consapevolezza che esiste qualcosa che somiglia alla felicità ed è possibile anche quando coesiste con la  tristezza e la  sofferenza, che, sostanzialmente, il paradiso c’è, anche se triste.

Giulio intuisce la sua somiglianza con Susy “siamo fatti allo stesso modo”, cogliendo la necessità di raccordarsi con un altro essere ed esprimendo quello che sempre Cappello definisce “l’inadeguatezza della singolarità di fronte alla ricchezza dell’umana dignità che è universalità e composizione tra gli esseri umani”.
La sua ricerca di libertà si traduce così sì in necessità “di disincrostazione della mente”, ma senza arrivare con Cappello a dire che si tratta di “necessità della fede”, piuttosto si potrebbe definire, necessità di fiducia negli altri, nel domani. Dal canto suo Gabriella si percepisce alla fine “persa ma sicura e fiera” e scopre la necessità di “fare luce su tutto”, e di  “volare in alto”.

Tanzj, come afferma ancora Cappello, per bocca del prof. Ferri “esprime il bisogno di nuove comunicazioni”, e relazioni, diverse, lontane da quelle che ogni giorno costringono ad indossare la “maschera di circostanza”, intuita da Napolitano, e che permettano di “voltare verso altre dimensioni esistenziali”. Relazioni che consentano, perlomeno, l’avvio della soluzione dei problemi universali che coinvolgono tutti gli uomini del mondo, nella piena coscienza che “siamo tutti inadeguati”.

La ricerca di tutti i personaggi approda allo stesso unico luogo desumibile dalle parole di Ferri alla donna “non ho voglia di fare lotte di alcun tipo, né di aver ragione o torto. Sono tutte cose scontate, e odiose, e inutili…Io ho voglia solo di amare”. Una vera liberazione dall’inutile, dai falsi poeti, dagli pseudo-filosofi predicatori del nulla, per approdare alla vera “scala di valutazione di tutte le cose”. (Cappello)

Tanzj è Ferri, com’è stato rilevato in quasi tutte le recensioni, ma anche Gabriella (fine conoscitore dell’animo femminile, acuta interprete delle sue pieghe più problematiche, delle debolezze e della forza), è Giulio ed anche il padre di Giulio, eternamente legato ai propri sogni, tanto da restare estraneo alle vicende del figlio e della moglie. In questa straordinaria frammentazione di io si rivela tutta la complessa personalità dell’autore, che sa essere uno e centomila, riesce ad interpretare ognuno di noi con le proprie ansie, insicurezze, voracità di vita, indigestione di fare, equilibri instabili.

La forza del romanzo sta nell’essere nato dalle esperienze di una vita e nell’essere diventato l’ emblema di tutte le vite. Come afferma Giorgio Palmieri “Tanzj è uno sguardo introspettivo, uno scandaglio insieme elegante e acuto su una quotidianità solo apparentemente ‘banale’, in realtà efficacemente ‘esemplare’”. I personaggi, sia i tre principali che i minori, rappresentano un’umanità che resta invischiata nella parte triste del paradiso…d’altronde “la pagina ha il suo bene quando la volti e c’è la vita dietro che spinge e scompiglia tutti i fogli” ( Calvino)

22 settembre 2013

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