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Perché l’abuso dell’inglese rischia di uccidere la lingua italiana

Antonio Zoppetti, nel suo libro "Diciamolo in italiano" lancia un allarme e insieme una sfida: la nostra lingua è in grave pericolo, per via dell’onda anomala di parole inglesi

MILANO – La nostra lingua è in grave pericolo per via dell’onda anomala di parole inglesi che vi si abbatte quotidianamente contro e che la va corrodendo. E’ questo l’allarme lanciato da Antonio Zoppetti nel suo libro “Diciamolo in italiano. E a leggere questo libro, in cui Zoppetti con rigore esemplare ricerca i motivi e i dati, ci si rende conto di quanto reale sia questa minaccia. Come un “cecchino della parola”, l’autore investiga di ogni parola importata l’etimologia, o per meglio dire la storia, saltellando di dizionario in dizionario, ne ricerca le radici, il terreno su cui affondano e ci spiega il perché esse abbiano attecchito, in quali contesti. Con approccio sempre ironico e una lingua ricca di immagini, questo volume ha il dono di sprizzare entusiasmo anche lì dove, con statistiche alla mano, illustra l’incidenza crescente dei forestierismi. E ci fa seriamente preoccupare.

Oscurantista? Purista? Né l’uno né l’altro. Perché Zoppetti non è affatto contrario ai prestiti stranieri in assoluto, a patto però che, come prima di lui del resto diceva addirittura Leopardi, vengano adattati ai suoni e alla grammatica dell’italiano. Semmai, suggerisce l’autore, si possono tacciare di “negazionismo” quelli che ignorano o sminuiscono il fenomeno crescente dell’itanglese. Un lavoro di grande valore che Zoppetti porta avanti anche nel suo blog. Laura Imai Messina, scrittrice, docente universitaria e ricercatrice residente a Tokyo, ha intervistato Antonio Zoppetti per Libreriamo.

 

In Diciamolo in italiano, lei nega punto per punto come alcune parole siano “intraducibili”, “importate di necessità”. Quali sono gli strumenti oggi a disposizione del comune cittadino per “tornare a dirlo in italiano”?

Non sono il solo che contesta la categoria dei “prestiti necessità”: davanti a una parola che non c’è, oltre a importarla, si può anche creare un neologismo, tradurla, adattarla o allargare il significato di vecchie parole. In questo processo, però, il singolo cittadino non ha strumenti per imporre nell’uso neologismi e alternative, se già non esistono. Questo ruolo spetterebbe ai mezzi di informazione, che storicamente hanno avuto un grande ruolo nell’unificazione linguistica, ma oggi sono proprio i maggiori “untori” degli anglicismi. Adattare (es. doping/dopaggio) in passato era normale e istintivo, ma oggi è rarissimo e ce ne “vergogniamo”. Anche i calchi (beefsteak/bistecca), le traduzioni (fake news/notizie false) e gli allargamenti di significati (selfie/autoscatto) non sono “di moda”, e il risultato è che l’unica soluzione praticata è di importare migliaia di parole inglesi. E i cittadini cos’altro possono fare se non ripetere le parole che leggono sui giornali?

 

Lei scrive che quelle parole che paiono tecnicismi (computer, mouse, software ecc.), si tramutano invece in parole del linguaggio comune, andando anche ad attecchire nel vocabolario di base della lingua italiana. Come accorgersi di questa trasformazione per tempo? Quale dovrebbe essere il campanello d’allarme?

I linguaggi settoriali di tecnica, informatica, economia, scienza… sono infarciti di anglicismi. Il campanello d’allarme dovrebbe suonare quando escono dai settori e straripano nei mezzi di informazione che non creano alternative o non le usano. È soprattutto in questa fase che bisognerebbe intervenire. Benchamark, spread, trend… erano tecnicismi economici che hanno cominciato a comparire sui giornali ripetuti senza alternative (parametro di riferimento, divario, tendenza). Invece di fare divulgazione si impongono ai cittadini le parole tecniche inglesi, a discapito di trasparenza e comprensione. Altre volte, come nel caso di mouse, non lo abbiamo nemmeno tradotto, e oggi ci manca una parola italiana per indicare questo oggetto quotidiano che si dice topo in Francia (souris), Spagna (ratón) e Germania (Maus). Invece noi preferiamo ripetere quello che leggiamo sulle scatole dei prodotti che ci vendono e non vogliamo creare alternative (airbag, antispyware), oppure quando ci sono (calcolatore) in molti casi alla fine diventano obsolete davanti all’inglese (computer) e non si possono più usare. Questi sono campanelli d’allarme gravissimi.

 

La lingua è una questione di cura, scrive lei e scrive anche Annamaria Testa nella prefazione di Diciamolo in italiano: cura del mondo, cura della parola, cura del pensiero. A fronte di questa fragilità dell’italiano, manca secondo lei la parola o il pensiero? E quanto conta, se conta, la pigrizia degli italiani?

La “pigrizia”, se c’è, riguarda i traduttori o i professionisti che ripetono a pappagallo l’inglese, invece di tradurre o creare alternative. Ma il problema a mio avviso non è la pigrizia, ma la moda: preferiamo dirlo in inglese, ci sembra una lingua più evocativa e abbiamo un grosso complesso di inferiorità nei suoi confronti. Non è per pigrizia se diciamo competitor, mission e vision invece di competitore, missione e visione, è che vogliamo “fare gli americani” come nella canzone di Renato Carosone. E questa “strategia degli etruschi” che si sono sottomessi alla romanità (la consideravano evidentemente una cultura superiore) è un problema di “modo di pensare” che poi si riflette sulle parole e rischia di portare alla regressione del lessico italiano.

 

Serve davvero tradurre per fare nostro qualcosa? Ed è utile “fare le pulci alle parole”? A chi domanda “perché latino sì e inglese no”, polemizzando sul fatto che è persino più lontano da noi il latino dell’inglese, cosa risponde?

Il latino è la nostra lingua madre, l’inglese è una lingua che fino all’Ottocento ci era totalmente estranea e il suo suono scardina completamente il sistema morfo-sintattico (le regole, la grafia e la pronuncia) del “bel paese là dove ‘l sì suona”. Dunque c’è una bella differenza! Ma va chiarita una cosa importantissima: l’epoca del purismo è chiusa e sepolta. Il punto non è ammettere i forestierismi (di tutti però: c’è anche francese, spagnolo, tedesco, giapponese…) che possono essere anche una ricchezza e non vanno condannati in sé. Il problema è nel loro numero. Il francese, che ci ha influenzati sin dai tempi di Dante, e poi durante l’epoca delle invasioni, dell’Illuminismo, di Napoleone e della Belle Époque, è stato adattato e assimilato, e oggi nei vocabolari si contano meno di 1.000 gallicismi non adattati (a fronte di un centinaio di ispanismi, un centinaio di germanismi, e per le altre lingue siamo nell’ordine delle decine di parole). L’inglese, in 70 anni, ha prodotto quasi 3.500 parole senza adattamenti, per la maggior parte sostantivi (sono quasi il 5% dei nostri sostantivi). E se si guardano i neologismi del nuovo Millennio quasi la metà sono parole inglesi. Questo è pericolosissimo: il lessico italiano è ormai mutilato, è incapace di descrivere la maggior parte delle cose moderne o tecnologiche che vengono dette in inglese. È un problema che riguarda il presente, ma soprattutto il futuro.

 

Personalmente mi trovo talvolta a far uso di parole inglesi come scappatoia rapida da una frase di cui non mi venga in mente subito il termine. Nella lingua scritta invece sono assidua frequentatrice di dizionari dei sinonimi e contrari, di vocabolari della lingua italiana, etimologici. Secondo lei è più tollerabile questa fallibilità nel parlato che nella lingua scritta?

L’italiano scritto ha una tradizione secolare, quello parlato ha un secolo di vita, ed è per questo che è fragile. Fino al Novecento era solo una lingua letteraria, e gli italiani parlavano in dialetto; persino Manzoni parlava il milanese nella vita privata e il francese nei contesti internazionali. L’italiano era una specie di registro linguistico elevato che si usava tra italiani di regioni diverse, e con un certo sforzo. Oggi, la presenza di anglicismi nei testi letterari è bassa (al contrario dei giornali). Ma come osservava Pasolini, da tempo gli scrittori hanno smesso di formare la lingua. Adesso questo ruolo spetta a giornali, politici, imprenditori o scienziati. Il fatto che nel parlare vengano istintive parole inglesi è un sintomo preoccupante! Io stesso, lo ammetto, talvolta devo fare un certo sforzo per dire in italiano parole come budget, range o welfare (stanziamento, intervallo, stato sociale), perché circolano sempre meno. È il segnale di un’anglicizzazione enorme, radicata e profonda, che sta portando alla perdita della spontaneità della nostra lingua. Quando si scrive c’è il tempo per trovare la giusta parola (altrimenti è pigrizia), quando si parla no. E questo è grave e triste.

 

In almeno due punti del suo libro lei definisce i linguisti “gente litigiosa”, che non si mette d’accordo facilmente e che quindi “non resta che arrangiarsi” da sé senza il loro aiuto congiunto. Ma è proprio così? Non c’è modo di convincerli/vi a collaborare per la salvaguardia della nostra lingua nazionale?

Storicamente, la “questione della lingua” nasce con Dante prima ancora della Divina Commedia. Nel ‘500 l’ha posta in modo più eclatante Pietro Bembo, e si ritrova nel ‘600 nel dizionario dell’Accademia della Crusca, attaccata dagli autori che non volevano ricorrere solo al modello toscano. Nel ‘700 c’è stata la rinuncia alla lingua della Crusca dalle pagine del Caffè da parte di Alessandro Verri, e nell’800 è arrivata la soluzione letteraria manzoniana. Ogni volta linguisti e letterati si sono divisi in fazioni. Le polemiche hanno attraversato il ‘900 e ci sono anche oggi. Dopo secoli di controversie, molti linguisti del Duemila pensano che l’inglese sia la modernità e non costituisca un problema, ciechi davanti a ciò che sta accadendo e che ho cercato di mostrare, numeri alla mano. Ma la questione dell’itanglese non è solo una “lite” tra linguisti, riguarda tutti noi. Quello che dicono i linguisti (anche se si “mettessero d’accordo”) incide poco sulla realtà, il problema è culturale e politico. L’italiano è un patrimonio culturale che andrebbe salvaguardato come quello artistico o gastronomico. E per citare de Saussure, la lingua è qualcosa di troppo importante per lasciarla solo ai linguisti.

 

Laura Imai Messina

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