Una delle lettere più belle della letteratura italiana, datata 10 dicembre 1513, è quella che Niccolò Machiavelli. Allontanato da Firenze, Machiavelli scrive a Francesco Vettori e nella quale racconta come amministra la sua vita in esilio. Nelle ore diurne si mescola con la gente del popolo, dedicandosi a umili occupazioni (sempre con i suoi poeti sotto braccio!).
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La lettera di Machiavelli
Trascorre poi molte ore all’osteria, cercando tra scherzi e ingiurie di sfogare i propri rancori esistenziali sempre risorgenti. Quando arriva la sera però tutto cambia e la possibilità di accarezzare le sue amate pagine dei suoi autori adorati adorati disacerba, rasserena e riconforta l’intera esistenza:
«Venuta la sera, mi ritorno a casa ed entro nel mio scrittoio; e in sull’uscio mi spoglio quella veste cotidiana, piena di fango e di loto, e mi metto panni reali e curiali; e rivestito condecentemente, entro nelle antique corti delli antiqui huomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo che solum è mio e ch’io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro e domandarli della ragione delle loro azioni; e quelli per loro humanità mi rispondono; e non sento per quattro hore di tempo alcuna noia, dimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte: tutto mi transferisco in loro.»
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Come il giovane Marcel nella Recerche di Proust, al quale il sapore della madelaine regalava un senso di immunità dai dolori della vita. Allo stesso modo Niccolò Machiavelli, quando sorseggiava i suoi amati scrittori, donava a sé stesso una temporanea, dolcissima esenzione dalle angosce esistenziali. La lettura ha un vero e proprio valore terapeutico: immunizza dal male di vivere.
Il grande illuminista francese Montesquieu la pensava allo stesso modo. «Lo studio è sempre stato per me il rimedio sovrano contro il disgusto della vita, e non ho mai provato un dolore che un’ora di lettura non sia riuscita a far svanire».