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Che cosa vuol dire “kafkiano” e quando usarlo

A distanza di quasi 100 anni dalla morte di Franz Kafka, andiamo alla scoperta del termine "kafkiano" e di come utilizzarlo quando si conversa

Sono passati quasi 100 anni dalla morte di Franz Kafka, avvenuta il 3 giugno 1924, ma l’impronta che lo scrittore ceco ha lasciato nella nostra cultura è ancora visibile. Grazie ai suoi romanzi e ai suoi racconti, spinti spesso ai limiti dell’assurdo, Kafka ha dato vita a un vero e proprio immaginario. Nasce così il neologismo “kafkiano”, un termine che si utilizza non soltanto in riferimento all’autore e alle sue opere, ma anche per definire determinate situazioni. 

Il significato di “kafkiano”

Il termine “kafkiano”, infatti, richiama l’atmosfera tipica dei racconti di Kafka. Quando si verifica qualcosa di inquieto, angoscioso, desolante, o paradossale, allucinante, assurdo, si parla infatti di situazione “kafkiana”. Un termine equivalente potrebbe essere “perturbante” nell’accezione freudiana. Con riferimento a qualcosa che è estraneo e familiare ad un tempo, e risuona inquietante proprio per questa sua ineliminabile e spiazzante ambiguità.

Una situazione kafkiana

Uno degli esempi più paradigmatici di situazione “kafkiana” è forse proprio quella del Processo di Kafka. Il protagonista “Josef K.” riceve inaspettatamente la notizia di essere in arresto. Un giorno, trovandosi negli uffici della banca dove lavora, apre la porta di un ripostiglio e vi trova i custodi che si erano presentati in casa sua. Essi sono puniti da un aguzzino, perché Josef K. si era lamentato del loro comportamento. L’effetto kafkiano del lettore si scatena però non in questa sorpresa irreale, ma nel constatare il comportamento del protagonista. Egli non reagisce al fatto di trovare dei poliziotti là dove mai avrebbe pensato, ma si preoccupa che i poliziotti non facciano troppo rumore quando sono frustati. La paura di Josef K. è che i colleghi o i suoi sottoposti si presentino a vedere cosa succede e scoprano così che egli è sotto processo. 

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