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Siccità, il film di Virzì che affronta l’aridità moderna

Siccità è un film italiano del 2022 diretto da Paolo Virzì che riflette le problematiche di un’epoca corrosa dal dinamismo, proponendo al grande pubblico un quadro distopico e innovativo della nostra società.

Il nuovo film di Paolo Virzí, Siccità, riflette le problematiche di un’epoca corrosa dal dinamismo, proponendo al grande pubblico un quadro distopico e innovativo della nostra società. Il film di Virzì sembra arrivare dall’onda che negli anni 70 pervase il grande schermo italiano, con la satira sociale, di costume e politica, magistralmente rappresentata da grandi registi del calibro di De Sica, Comencini, Risi, Monicelli, solo per citarne alcuni. 

Siccità, trama e corpo del film

Siccità si svolge in una Roma apocalittica nella quale non piove da tre anni.

La mancanza d’acqua stravolge le abitudini della Capitale, costringendo le autorità a chiudere i rubinetti e varare nuove norme per il razionamento delle scorte. L’unica fonte d’acqua viene erogata da cisterne vigilate dalle autorità che controllano l’utilizzo che ne fanno i cittadini: una tanica a famiglia.

In questa città infestata di scarafaggi, dove c’è chi muore di sete e chi di una malattia sconosciuta che inizia a contagiare la gente e che probabilmente è legata alla siccità e alla scarsa igiene, si muovono diversi personaggi.

Tra questi un avvocato di successo (Vinicio Marconi) sposato con una cinica dottoressa ospedaliera (Claudia Pandolfi); un sonnolento ex autista di auto blu (Valerio Mastandrea), che adesso è un driver in preda ad allucinazioni; una guardia del corpo rozza (Gabriel Montesi) e la sua protetta (Emanuela Fanelli), figlia di un ricco proprietario di un hotel di lusso.

Ci sono poi anche un detenuto di Rebibbia (Silvio Orlando) che evade per sbaglio e vaga in cerca di redenzione; un influencer con un passato da attore di teatro (Tommaso Ragno) che trascura la moglie (Elena Lietti) e deve fare i conti con un figlio ribelle; un ex commerciante in bancarotta (Max Tortora) che scalpita per parlare alla televisione delle sue sventure finanziarie; uno scienziato (Diego Ribon) diventato una star televisiva e che finisce per affascinare una diva del cinema (Monica Bellucci).

Esistenze e realtà tra loro apparentemente diverse e distanti, che trovano un orizzonte comune nella catastrofe ambientale, in un presente dai contorni quasi onirici, che diventerà palcoscenico per sfiorarsi, toccarsi…e finire per incrociarsi.

È in questo contesto sociale che nasce l’apocalittica parabola di Siccità, che non è poi tanto lontana dal nostro presente.

Elementi del film e attualità

Uno degli elementi sui quali si regge Siccità è sicuramente la “distopia domestica” : una realtà molto vicina per non dire quasi tangibile al nostro presente e soprattutto ad un passato relativamente recente.

L’epidemia, il lockdown del 2020, l’emergenza sanitaria, il clima di angoscia e clausura vissuto, si riflettono nel racconto di Virzì, quindi contaminato con tutta una serie di ambientazioni (gli ospedali), sociologie (le proteste di piazza) e avvenimenti (il Papa che prega per la pioggia) che fanno il paio con quello che abbiamo realmente vissuto in quel periodo.

Siccità tuttavia non è solo l’eco di quel mondo, anzi, ne coglie le sfumature distopiche, ma le proietta su un’altra emergenza, quella climatica, rendendo ancora più attuale tutto l’impianto narrativo. 

È così che Virzì costruisce il suo dramma futuristico sulle risonanze del passato per poi deformarlo attraverso l’istantaneità del presente.

Il rapporto con il passato, riferimenti cinematografici e analogie

Il passato da cui il regista italiano attinge, non è solo legato alla nostra quotidianità e all’unanime vissuto, ma sembra affacciarsi anche al panorama cinematografico, con evidenti riferimenti e probabilmente anche un’ipotizzabile continuità tematica.

Nell’ingorgo, un film del 1978 di Comencini, vediamo una storia frammentata e corale che, come Siccità, rappresenta una società in un clima apparentemente apocalittico che fa emergere da ogni individuo, una realtà che pullula di impulsività dai tratti animaleschi.

Sulla via Appia Nuova, un enorme ingorgo, le cui cause rimarranno ignote, costringe centinaia di macchine a fermarsi e rimanere bloccate per più di 24 ore. In questo scenario prende il via un puzzle di storie che compone il tessuto narrativo e si intreccia nelle vicende di vari personaggi, quasi sempre contenitori di miseria morale e turpi egoismi. Infelici, tutti, indistintamente.

In entrambi i film, saldi fra di loro da comuni tematiche, sono moltissime le analogie.

I volti dei protagonisti mettono in atto il grottesco teatrino che è la nostra stessa vita: gli esseri umani della pandemia, bloccati in esistenze che non riconosciamo più, liquefatte in una società claustrofobica e priva di autenticità.

In proporzione alla grandezza dell’evento ci scopriamo spaventati davanti all’ignoto, a un tempo perennemente sospeso, dai contorni sfumati dove le regole non bastano più e ci ritroviamo a tarare i sentimenti su qualcosa che non sappiamo e per quanto tempo sarà il mondo a cui dovremo aderire. 

Si trovano tutti nella medesima condizione, in un “non luogo” che è quasi metafisico, asfissiante e claustrofobico. 

Virzì come Comencini analizza con la lente d’ingrandimento “i mostri” della nostra società (di prima e di oggi) e anche i rari esagerati moralismi vengono perdonati in quanto i protagonisti sono solo rappresentati di vari archetipi umani. I personaggi, rifacendosi a stereotipi canonici, acquistano una forte drammaticità in una dimensione esasperata che ingigantisce ogni gesto e rende reale una situazione percepita come mostruosa e fantastica.

Ci rivela con tagliente sarcasmo, come sia facile regredire a una condizione animalesca, mostrando il peggio di sé nelle situazioni di convivenza forzata e tensione.

Lo sguardo di Comencini, così come quello di Virzì è su un mondo che sembra decomporsi come le vetture accatastate e gli animi smembrati dei personaggi di ambedue i film che ci presentano un’umanità in attesa.

Collegamenti alla letteratura distopica

Un altro collegamento che si riallaccia alla tradizione distopica riguarda il mondo dei romanzi.

Anche in questo caso la lista sarebbe ampia, ma fra i più importanti citiamo Golding, con il Signore delle mosche, Orwell e Huxley che rappresentando una società completamente stravolta, hanno dato voce ad una realtà possibile e non del tutto lontana, che sicuramente incorpora in sé i problemi nascosti nell’abisso della convenzionalità sociale.

Roma, uno specchio eterno

E poi c’è Roma, in tutta la sua decadenza postmoderna. 

Non quella elegante e sorniona di Sorrentino o di Fellini, ma quella viscerale, zozza e cafona, più aderente alla realtà e alla satira che Virzì adopera e dietro la quale si cela sempre una sottile critica. 

Luca Bigazzi la cattura con una luminosità vivida e accecante, con i colori quasi virati al seppia, saturi, rendendo la città arida e polverosa; una sorta di deserto urbano.

Tante idee visive, tra tutte quella potentissima del Tevere prosciugato (realizzato in digitale) da cui, insieme alla spazzatura, emerge un grande colosso di epoca romana. Monnezza e arte antica: quale migliore immagine per raccontare l’ambivalenza della Città Eterna in un clima distopico e alienante?

Tecniche e scelte del regista

Possiamo dire fermamente che è stata una scelta azzardata e sicuramente innovativa e riuscita quella del Virzi.

Le dinamiche portate all’estremo smuovono la convenzionalità delle tematiche del grande schermo e riportano invece alla luce una situazione socioeconomica e politica dirottata verso la rovina e l’autodistruzione. 

Tutto ciò è perfettamente reso mediante scelte e tecniche che delineano ancor di più i contorni del film.

Ci troviamo dinanzi ad un cinema frenetico, che corre, abbraccia più realtà, movimenti di macchina brevi e fluidi che tagliano gli spazi e un montaggio straordinario (quello di Jacopo Quadri) che alterna le tante storie raccontate in modo perfetto.

Sceneggiatura e personaggi

La sceneggiatura scritta otto mani si riflette nel film dando vita ad una vera e propria sceneggiatura corale che riesce a farci immergere in ciascuna realtà.

Viene a crearsi un puzzle di drammi, ognuno celato nella propria dimensione individuale ma che, anche solo per sfumature casuali del destino, si lega agli altri per cercare insieme di scandagliare il disagio umano.

Ogni tema si riflette nella quotidianità di personaggi in preda a debolezze interiori e ai fantasmi del passato, restituendo un panorama antropologico di un’umanità volutamente debordante e quasi grottesca.

Sono pedine “assetate” che si muovono in modo compulsivo, alla ricerca di acqua come anche di affetti, riconoscimenti e attenzioni.

Personaggi privilegiati o sfruttati ma sempre fragilissimi, che fanno fatica ad amare o a dire la verità – agli altri o a loro stessi – e sono incapaci ormai persino di comunicare tra di loro, siano essi coniugi, genitori o amanti.

Sono -i personaggi- e siamo noi tutti intrappolati, benché partecipi, di quel groviglio di emozioni e incontri che probabilmente è la vita stessa.

Epilogo

La forza di Paolo Virzì è stata probabilmente sempre quella di utilizzare il genere della commedia come filtro dissacrante e illusorio per raccontare la società italiana nella sua ipocrisia e nelle dinamiche più profonde.

Sulle orme dei grandi registi del passato Virzì ha saputo rinnovare la tradizione della commedia dissacrante italiana, mantenendo la critica velata ma incisiva, saturando le dinamiche sociali per sfociare in una distopia i cui margini della realtà sembrano inabissarsi nella coralità emotiva di ogni singola realtà.

Maria Elena Centonze

 

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