Nei versi tratti dalla poesia Si riparano personal (computer), Valerio Magrelli affronta uno dei nodi centrali della contemporaneità: il rapporto tra l’uomo e la tecnologia, tra la scienza e chi la maneggia senza comprenderla. I versi recitano:
Io non odio la scienza
bensí l’incompetente
che taglia e spaccia il nulla,
lui stesso ignaro ostaggio
assuefatto alla tecnica
come il tossico al male.
Valerio Magrelli e l’imperante incompetenza
In queste poche, incisive righe, Magrelli denuncia con forza non tanto la scienza in sé – che anzi pare rispettare – quanto l’uso distorto, inconsapevole e passivo che molti ne fanno. È un grido poetico contro l’incompetenza elevata a prassi, contro l’assuefazione alla tecnica che, anziché liberare, rende schiavi. La critica prende forma con una struttura chiara: c’è un soggetto (“io”), un oggetto d’amore mancato (“la scienza”), e un bersaglio preciso: “l’incompetente”.
Il primo nodo da affrontare, implicito nei versi, è quello della differenza tra scienza e tecnica. La scienza, come metodo di indagine del reale, ha in sé una vocazione razionale, critica, aperta al dubbio. È – o dovrebbe essere – esercizio del pensiero e della verifica. La tecnica, invece, è l’insieme degli strumenti applicativi della scienza. Essa produce dispositivi, metodi, pratiche, ed è oggi onnipresente nella nostra vita quotidiana. Quando Valerio Magrelli afferma “Io non odio la scienza”, egli compie una distinzione netta: non ce l’ha con la conoscenza o il progresso, ma con l’uso acritico, incompetente e deresponsabilizzato della tecnica.
L’incompetente che spaccia il nulla
La figura dell’“incompetente che taglia e spaccia il nulla” è potentemente attuale. È colui che maneggia strumenti di cui non conosce il funzionamento, che diffonde informazioni (o disinformazioni) senza averle comprese, che agisce senza cognizione di causa. È anche una figura sociale: può essere il tecnico improvvisato, il sedicente esperto, l’opinionista digitale, ma anche il consumatore passivo che affida ogni funzione vitale – dalla comunicazione alla memoria, dalla socialità all’apprendimento – a dispositivi che non sa più governare.
Il verbo spacciare è fondamentale: richiama il lessico della droga, del mercato illegale, della dipendenza. Chi spaccia il nulla lo vende come fosse qualcosa, diffonde un’illusione. Tagliare e spacciare è anche un’operazione di mascheramento: si propone un prodotto diluito, contraffatto, e lo si presenta come autentico. In questo contesto, il “nulla” è la mancanza di senso, di profondità, di consapevolezza, mascherata da efficienza tecnologica.
Ignari ostaggi della tecnica
L’incompetente, dice Valerio Magrelli, è “lui stesso ignaro ostaggio”. La sua condizione non è solo colpevole, ma anche tragica: è prigioniero di ciò che non comprende. Questo è uno dei punti più drammatici del testo. L’ostaggio è una vittima, ma l’aggettivo “ignaro” lo descrive anche come inconsapevole del proprio stato: non sa di essere prigioniero. È una condizione che richiama la caverna platonica, dove gli uomini, incatenati, scambiano per realtà le ombre proiettate sul muro. Solo che qui la caverna è quella dei dispositivi digitali, dell’automazione, delle interfacce che mediano ogni esperienza.
La nostra epoca si caratterizza proprio per questa inconsapevolezza sistemica: utilizziamo strumenti complessi – smartphone, software, intelligenze artificiali – senza comprenderli davvero. Ci fidiamo ciecamente di ciò che ci restituiscono, affidando loro non solo compiti ma anche decisioni, relazioni, pensieri. La tecnica non è più solo uno strumento: è diventata ambiente, orizzonte, ecosistema. E noi ci muoviamo al suo interno come pesci in un acquario che non sanno di essere chiusi in vetro.
Assuefazione e tossicodipendenza
L’ultimo verso – “assuefatto alla tecnica / come il tossico al male” – è forse il più potente e dolente. L’analogia tra uso della tecnologia e tossicodipendenza è tanto audace quanto rivelatrice. L’assuefazione indica una perdita progressiva di sensibilità, di capacità di reagire: più si è esposti a uno stimolo, meno lo si avverte, e più se ne ha bisogno per provare qualcosa. È lo stesso meccanismo che avviene con l’uso delle droghe: un ciclo di dipendenza, bisogno, alienazione.
Valerio Magrelli ci dice che l’uomo contemporaneo è assuefatto alla tecnica allo stesso modo in cui un tossicodipendente è legato alla sostanza che lo distrugge. La tecnica, da liberazione, si è fatta male, ed è un male tanto più subdolo quanto più camuffato da comodità, efficienza, modernità. L’uomo tecnico è un uomo malato che non sa più di esserlo, e che si aggrappa ai suoi strumenti come un naufrago alla zattera che affonda.
Questi versi di Valerio Magrelli non sono solo un momento lirico, ma un atto di denuncia. Appartengono alla poesia civile, quella che si interroga sul mondo, che non teme di mettere in discussione le narrazioni dominanti. Valerio Magrelli non propone una fuga dalla tecnica, né un ritorno romantico a una presunta natura originaria. Piuttosto, invita a recuperare il senso critico, la consapevolezza, la capacità di distinguere tra uso e abuso, tra sapere e consumo.
In un’epoca in cui la tecnologia è ovunque, ma la cultura scientifica è sempre più fragile, questi versi ci richiamano all’urgenza di pensare, di conoscere, di non diventare ostaggi del nostro stesso progresso. Solo così potremo recuperare non solo il controllo dei nostri strumenti, ma anche – e soprattutto – la nostra libertà interiore.