La frase di Curzio Malaparte, scrittore, giornalista e testimone delle tragedie del Novecento, pone in discussione una delle più radicate convenzioni storiche e culturali: l’associazione del valore con la vittoria. In poche righe, Malaparte ribalta la prospettiva, suggerendo che nei vinti — coloro che non hanno avuto la meglio nei conflitti politici, militari o morali — risieda un valore umano più profondo e autentico rispetto a quello dei vincitori.
“Non so quale sia più difficile, se il mestiere del vinto o quello del vincitore: di una cosa sono certo, che il valore umano dei vinti è superiore a quello dei vincitori.”
Il pensiero di Malaparte, in particolare nella sua opera La pelle (1949), è attraversato da una continua ambiguità morale e da una volontà di osservare la storia non dal punto di vista dei potenti, ma degli uomini comuni, spesso travolti dagli eventi. In questo senso, la citazione appare coerente con il suo modo di leggere le dinamiche umane e storiche: al di là della retorica trionfale, chi perde non è per forza inferiore, e chi vince non è necessariamente più degno.
Curzio Malaparte: vinti e vincitori oltre la retorica
Tradizionalmente, la figura del vincitore viene celebrata come simbolo di forza, giustizia e legittimità. Le narrazioni storiche spesso glorificano chi ha prevalso, costruendo miti fondativi attorno ai trionfi. Ma Malaparte suggerisce che il “mestiere del vincitore” — cioè il suo compito morale e storico — non sia meno difficile di quello del vinto. Tuttavia, è il vinto che porta dentro di sé una dimensione più profonda di umanità, probabilmente perché ha sperimentato la perdita, la frattura, la vulnerabilità.
Il vinto, infatti, non può aggrapparsi a una gloria pubblica per legittimare le sue azioni. Deve fare i conti con la sconfitta, con la perdita di dignità, spesso con la stigmatizzazione. Ma è proprio in questo confronto doloroso con il fallimento che, secondo Malaparte, può germogliare un’umanità autentica, non contaminata dal potere. Il valore umano del vinto consiste nella sua capacità di sopportare la vergogna, l’umiliazione e l’incomprensione senza per questo perdere se stesso.
L’esperienza della guerra e la figura del vinto
L’affermazione di Malaparte non può essere letta senza considerare la sua esperienza diretta della guerra. Durante il secondo conflitto mondiale, egli visse sia da osservatore che da partecipe gli orrori del fronte, in particolare sul fronte orientale e a Napoli, dopo lo sbarco degli Alleati. Fu spettatore della miseria dei civili, della crudeltà dei militari, della disperazione dei sopravvissuti.
In La pelle, il vinto non è solo il soldato tedesco o italiano che ha perso la battaglia, ma anche il civile affamato, la prostituta che sopravvive vendendo il proprio corpo agli americani, il bambino napoletano che baratta una scatoletta per un gesto d’affetto. In questi personaggi, marginali e sconfitti, Malaparte intravede la dignità dell’essere umano, la capacità di mantenere un briciolo di umanità anche in condizioni disumane.
Il vincitore e la perdita dell’innocenza
Chi vince, d’altra parte, secondo Malaparte, si carica di una responsabilità pesante: quella di giustificare la propria vittoria. Spesso ciò comporta una violenza simbolica e concreta: riscrivere la storia, umiliare i vinti, esercitare un potere che può rapidamente trasformarsi in sopruso. Il vincitore rischia di perdere il contatto con la propria coscienza morale, perché la vittoria lo pone in una posizione in cui ogni sua azione è “giustificata” dal successo.
Nel vincitore c’è dunque un rischio: quello di smarrire la propria umanità nel nome di una vittoria da difendere. In questo senso, Malaparte non dice che ogni vincitore è moralmente inferiore, ma che il vinto, paradossalmente, ha maggiori possibilità di conservare una verità interiore, una lucidità etica, proprio perché ha meno da difendere, meno da giustificare.
Una prospettiva esistenziale
La frase di Malaparte può essere letta anche in chiave esistenziale. Tutti, nella propria vita, attraversano momenti di sconfitta: lutti, fallimenti, delusioni, perdite. In queste esperienze, che ci mettono a nudo, spesso emerge la parte più autentica dell’individuo. Chi ha conosciuto la sconfitta — e l’ha accettata senza rancore — sviluppa una sensibilità verso gli altri, una comprensione del dolore altrui che chi ha sempre e solo vinto difficilmente possiede.
In questo senso, il vinto non è solo una figura storica o politica, ma anche un archetipo umano: colui che ha perso, ma non ha ceduto alla disumanizzazione. Il suo valore umano nasce da una forma di resilienza silenziosa, di dignità resistente.
Curzio Malaparte, con la sua prosa affilata e lucida, ci invita a guardare oltre le apparenze, oltre le medaglie e i trofei, oltre le bandiere issate sui cadaveri. In una società che spesso celebra il successo come unica misura del valore, le sue parole ci ricordano che il vero spessore umano si misura nel dolore, nell’umiliazione affrontata con dignità, nella capacità di restare uomini anche nella sconfitta. I vinti, nella loro vulnerabilità, ci mostrano il volto più autentico dell’umanità.