Databile con incertezza tra il 1470-1474 ca. o al 1483 ca. e conservato nella Pinacoteca di Brera a Milano, il Cristo morto è una delle opere più famose di Andrea Mantegna, è stato un pittore, incisore e miniaturista italiano, cittadino della Repubblica di Venezia.
Quest’opera d’arte è celebre per il vertiginoso scorcio prospettico della figura del Cristo disteso, che ha la particolarità di “seguire” lo spettatore che ne fissi i piedi scorrendo davanti al quadro stesso, secondo un criterio illusivo che è affine a quello dell’Oculo nella Camera degli Sposi e che eclissa quasi, con il suo carattere strabiliante, gli altri valori espressivi dell’opera.
Considerata uno dei vertici della produzione di Mantegna, quest’opera d’arte ha una forza espressiva e al tempo stesso una compostezza severa che ne fanno uno dei simboli più noti del Rinascimento italiano.
A distanza di oltre 500 anni, contemplando il Cristo morto di Andrea Mantegna non possiamo che rimanerne catturati. A spiegarci cosa si nasconde dietro questa fascinazione è l’esperto nonché noto critico d’arte Luca Nannipieri, autore dei libri “Raffaello” e “Capolavori rubati” pubblicati da Skira.
Perché il Cristo morto è considerata un’opera senza tempo
No, non aveva ragione Jorge Louis Borges: “la morte è un’usanza che tutti, prima o poi, dobbiamo rispettare”. No, si sbagliava. Quando chi ami non ti risponde più ed è lì davanti a te, disteso immobile, con gli occhi ormai vitrei, la bocca congestionata dall’ultimo spasmo, il volto scomparso quasi già nel teschio, la morte non è un’usanza: è cieca disperazione.
Questo dipinge Mantegna: il momento in cui per troppo amore, non vedi più amore; il momento in cui per aver troppo abbracciato, non riesci più ad abbracciare. I capelli del morto si fanno freddi, le mani e la fronte si sbiancano, eppure le avevi accarezzate fino a poco prima. Non vedi più conforto, non senti più speranza.
Quante volte abbiamo pianto come la Vergine Maria in questa cella d’obitorio! Quante volte quello stesso fazzoletto umido è andato a coprire le lacrime dei nostri occhi! Guardate come Mantegna, nel 1483, dipinge questo momento: ogni ambientazione è cancellata, non serve. Le membra sfinite di Cristo, l’affondo dei chiodi sui piedi e sulle mani, si prendono gran parte dello spazio del quadro, che è uno scorcio violento.
Le donne, per accentuare il carico di disperazione, sono tagliate dalla scena: rimangono solo il volto della Madonna, scavato dalle rughe, e un’altra bocca spalancata accanto, a cui il pittore elimina addirittura gli occhi, e poi le mani giunte di san Giovanni. No, non aveva ragione Jorge Louis Borges, e aveva ragione Mantegna: com’è solo l’uomo, quando nessuno lo soccorre.
Che cosa ci insegna quest’opera
Insegna una gran cosa: provate dal quadro a togliere quei tre volti che piangono sulla sinistra. Rimane un corpo muto, senza speranza. Rimane impietrita la morte, nella sua solitudine estrema. No, non è così che accade per fortuna nella nostra vita e qui Mantegna lo ha ribadito: ciascuno di noi muore ma accanto abbiamo persone che ci piangono, ci accarezzano, ci vegliano, ci pregano, portano di noi la testimonianza, il sangue. No, non moriamo soli.
Neanche colui che tirava su i defunti come Lazzaro e poi è morto su una croce come un cane, è trapassato da solo. Quando è stato deposto, accanto aveva chi lo ha pianto, cioè chi lo ha ringraziato di essere stato in vita. Qui sta la salvezza del nostro esistere: la morte non è mai un atto solitario.
Andate alla Pinacoteca di Brera a Milano a vedere quest’opera che rappresenta la tragica forza della vita, anche se pare ne raffiguri il suo opposto, la sua fine.