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“Siamo ancora vivi”, in un libro il forte legame tra un soldato del Reich e una bambina ebrea

La sceneggiatrice Emmanuelle Pirotte in questa intervista speiga quali sono le differenze e le novità contenute nel suo libro rispetto alla vastità di pubblicazioni legate al tema dell’Olocausto

MILANO – Ogni volta che un individuo riesce a riguadagnare un po’ della propria libertà è come se desse nuova speranza all’intera umanità. E’ questo quanto la sceneggiatrice Emmanuelle Pirotte ha voluto raccontare all’interno del suo romanzo d’esordio “Oggi siamo vivi“. In questo libro l’autrice mette insieme due personaggi inconciliabili, un soldato del Reich e una bambina ebrea, che altrimenti non si sarebbero mai potuti incontrare, e ne fa una storia che potremmo addirittura definire una storia d’amore. Ecco l’intervista all’autrice, in occasione della Giornata della Memoria.

 

Come nasce la trama di questo tuo libro?

In prima battuta c’è una sceneggiatura alla quale mio marito e io abbiamo lavorato per quattro anni. Era da tempo che avevamo voglia di raccontare la storia dei bambini che erano stati nascosti, però non sapevamo come fare. Era una storia che ci stava a cuore perché entrambe le nostre famiglie, durante la guerra, ne hanno accolti: la mia famiglia ha nascosto per circa due anni un ragazzo e la bisnonna di mio marito è stata anche nominata Giusta tra le Nazioni per aver protetto molte persone. Ma noi non sapevamo come avviare la storia. Poi a un certo punto abbiamo sentito parlare dell’Operazione Greif che ha avuto luogo proprio nella regione delle Ardenne in Belgio da parte dei tedeschi. Abbiamo subito capito di avere il terreno drammatico che ci serviva per dare vita alla nostra storia e a questa coppia improbabile.

 

Quali sono le differenze e le novità rispetto alla vastità di pubblicazioni legate al tema dell’Olocausto?

Ritengo che l’originalità di questo libro risieda nel fatto di aver messo insieme due personaggi inconciliabili, che altrimenti non si sarebbero mai potuti incontrare, e di averne fatto una storia che potremmo addirittura definire una storia d’amore. È un libro per certi versi iconoclasta, e in più c’è questa incarnazione che diventa una storia umana molto forte. Ritengo che siano questi i motivi principali che distinguono questa storia da tutti gli altri libri sulla seconda guerra mondiale. In più c’è una forte assenza di monocromatismo, in cui tutto è o solo bianco o solo nero. Io mi sono sforzata di cercare delle tinte intermedie, di usare il grigio, di mostrare che anche il nazismo può essere visto come qualcosa di più complesso di come lo si vede abitualmente.

 

Uno dei temi del libro è “la speranza”: quanto è importante, soprattutto al giorno d’oggi, mantenere la speranza e la fiducia, nonostante le difficoltà della vita?

Non sono una persona che ha una grande speranza e fiducia nell’umanità, nelle collettività, nelle masse. Credo che il destino dell’umanità sia tutt’altro che felice. Tuttavia credo nell’individuo e credo che l’individuo all’interno di una situazione particolarmente tragica e difficile riesca a trovare la forza di trascendere, di trasfigurarsi, di andare oltre ciò che lo distrugge. La mia unica speranza nel momento in cui mi metto a scrivere sta proprio in questo fatto di credere nell’individuo che in un certo momento, in maniera assai brusca, passa all’azione in solitario. Come succede a Mathias, che in realtà è un’autentica macchina per uccidere, ma all’improvviso incontra questa bambina e cambia, compiendo questo gesto. Solo questo ci salva da ciò che siamo, e questa storia tenta di raccontare come le persone riescono a riallacciarsi, a riconnettersi alla loro libertà.

 

Altro tema è quello della “scelta”: come è possibile prendere consapevolezza di essere padroni del proprio destino, e non “vittima” degli eventi?

Questa domanda è interessante e vale di fatto per entrambi i personaggi principali: Mathias prende in mano il proprio destino di essere umano allontanandosi dagli automatismi che lo hanno condizionato fino a quel momento. Anche Renée fa lo stesso, le accade quando crea la connessione visiva con chi sta per spararle ed è proprio questo che le salva la vita.

Mi affascina come l’essere umano possa, in determinate condizioni, sfuggire a ciò che lo rende una vittima del proprio destino. Questo meccanismo rappresenta per me una materia di riflessione eccezionale e inesauribile ed è ciò che mi aiuta a trovare ispirazione. La scelta è quasi una materia di riflessione filosofica.

Io non sono una filosofa, ma ogni volta che un individuo riesce a riguadagnare un po’ della propria libertà è come se desse nuova speranza all’intera umanità. So che sembra paradossale, ma ci sto riflettendo proprio adesso, mentre ne sto parlando.

Penso che tutti noi siamo poco liberi. Certo, possiamo decidere i nostri studi o lo stile di vita e crediamo che tutto questo sia frutto di una libera scelta. In realtà siamo condizionati da molti fattori di cui non siamo responsabili. Se questo ragionamento è valido per tutti noi, ancora di più lo è per chi ha vissuto durante il periodo nazista. A tutti questi condizionamenti sfuggiamo molto raramente, io per prima.

Io racconto quindi proprio il momento in cui si riesce a sfuggire a questi fattori, un momento rarissimo, direi un momento di grazia.

 

Sei una sceneggiatrice cinematografica: quali sono le differenze tra scrivere per il grande schermo e realizzare un libro?

Scrivere un romanzo è estremamente liberatorio. È qualcosa che non esiste nella scrittura di una sceneggiatura, che invece è molto codificata e risponde a tutta una serie di obblighi e imposizioni. Ad esempio, in una sceneggiatura non è possibile descrivere lo stato psicologico di un personaggio, ma è necessario passare attraverso la creazione di determinate atmosfere e scene. Ovviamente non è l’unica differenza, ma è certamente questo l’aspetto che mi ha colpito di più. Il potersi tuffare nell’intimità psicologica di un personaggio è stato per me incredibilmente liberatorio.

Quella della sceneggiatura è una scuola fantastica ed eccezionale. Ci sono tanti elementi che possono essere conservati nella scrittura di un romanzo, come il senso del ritmo o la capacità di descrivere alcune situazioni concitate e critiche in maniera sobria, evitando di diventare aggressivi. Saltare dalla scrittura della sceneggiatura a quella del romanzo mi ha appassionato moltissimo e credo che queste tipologie di narrazione si arricchiscano vicendevolmente.

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