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Elvira Serra, “Nel mio libro racconto la forza dei sentimenti”

A tu per tu con la scrittrice e giornalista sarda, autrice de Il Vento non lo puoi fermare, edito da Rizzoli, il suo secondo romanzo

MILANO – Una storia che aiuta a capire quanto, mettendosi alla prova, le folate della vita si possono affrontare solo affidandosi a esse e lasciandosi trasportare. Nel suo secondo e fortunato romanzo – Il vento non lo puoi fermare (Rizzoli) – Elvira Serra, giornalista del Corriere della Sera,  racconta in un intreccio dolce e ricco di pathos la storia del ventenne Elias, scaraventato nel fior della sua gioventù in un tunnel che lo porterà ad allontanarsi dagli affetti e isolarsi in un mondo tutto suo per ritrovare se stesso. Fanno da sfondo il fascino selvaggio e caldo di Cagliari – terra casa alla scrittrice – e l’eterna bellezza di Roma. Definirlo un romanzo di formazione è riduttivo, oltre che non rende onore a un racconto che nelle pagine regala anche pillole di cultura musicale e letteraria e diversi colpi di scena. Abbiamo chiesto alla stessa Elvira Serra di raccontarci qualcosa in più.

Il vento non lo puoi fermare. Un metafora della vita che comunque scorre o della convinzione ardita che l’uomo può dominare emozioni e sentimenti?

Il vento è la vita stessa che scorre, indipendentemente dal nostro volere. Come scrivo nel romanzo, è «quella linfa inesorabile che non ci abbandona mai finché davvero non siamo morti, che va ad alimentare ogni tessuto anche quando non vorremmo, che cuce, nutre e ripara nostro malgrado, perché il suo compito è continuare a far esistere il mondo, con noi e poi senza di noi, in un ciclo interminabile ed eterno».

 

Nel romanzo paiono emergere risolutezza e forza nelle figura femminile. In cosa Violetta, Rita, Eliana e Anna riflettono oggi lo stato della donna?

Non ho cercato di assegnare ai miei personaggi ruoli preconfezionati, li ho raccontati come sono venuti pagina dopo pagina nello spazio del libro. Sicuramente le donne riflettono le mie idee sul femminile: sono quindi figure forti, che combattono, che spendono ogni energia per conquistare quello che desiderano, che non si piangono addosso. Sono concrete, ma capaci di dolcezza. Sanno chi sono e cosa vogliono perché osano, a costo di sbagliare: rischiano.

 

I personaggi maschili risentono invece di una forte fragilità interiore e dipendenza dagli altri nelle scelte. Elias, Livio, Mattia e Alberto (e più in generale il maschio in sé) sono davvero uniti da questa condizione o hai voluto bilanciare i rapporti con la determinazione delle donne del tuo romanzo?

Anche qui non c’è stato un lavoro a tavolino, non esiste una bilancia letteraria, tolgo qui e aggiungo lì. Se i miei protagonisti maschi sono fragili, è perché li descrivo nudi, senza filtri, soltanto con i loro sentimenti. In questo, però, ci vedo forza, non debolezza: sono capaci di mettersi in discussione, di riflettere sulle cose senza farsele scivolare addosso, e agiscono di conseguenza. Il loro maschile, paradossalmente, sta proprio nella nudità, nella trasparenza con cui amano, soffrono, vivono, da soli e con gli altri.

 

Nella storia è forte la sensazione che per sapersi ritrovare è quasi necessario isolarsi, Elias e lo zio Alberto ne sono un esempio. Questa condizione è dettata più dalla paura di scoprirsi deboli o dalla normale natura egoista dell’uomo?

Nell’isolamento non c’è egoismo, ma un bisogno di silenzio necessario per capire che cosa fare. Siamo talmente poco abituati a questa condizione che subito ci appare strano chi decide di farne una scelta di vita. Elias si isola per far sedimentare la tragedia che lo ha colpito e che ha travolto un’altra famiglia: il senso di colpa fa di lui il giudice peggiore che gli potesse capitare, non riesce più ad affrontare gli altri perché lui per primo non riesce ad accettare se stesso. La depressione che lo aggredisce lo costringerà a chiudersi in se stesso. Ma quando toccherà il fondo del suo dolore, potrà  finalmente risalire in superficie e respirare. La solitudine dello zio Alberto è una scelta di autenticità: se non può essere chi è davvero davanti alla sua famiglia, allora preferisce allontanarsene.

 

Anche il bisogno di rimettersi in gioco è un leitmotiv del libro: Violetta quando perde Elias, lo stesso protagonista quando parte per Roma, lo zio Alberto lontano dalla famiglia e dal suo amore, Mattia dopo un passato difficile. Il vento quindi se si decide di affrontarlo si vince?

Vinciamo il vento soltanto quando ci facciamo trasportare da lui, quando accettiamo quello che non si può cambiare e proviamo a cambiare quello che è possibile. Rimettersi in gioco equivale a darsi una seconda possibilità: tutti ne meritiamo una purché, come i miei protagonisti, siamo disposti a conquistarla, ad andare a prenderla con tutte le forze. Come faranno Mattia, Alberto ed Elias. E come fa Violetta.

 

Il romanzo è un ritratto della tua Cagliari e diversi sono gli spunti che, dalla musica classica a quella rock di Springsteen che contornano il racconto. Quanto della tua vita è presente in questo libro?

C’è tanto del mio mondo, è vero. Anzitutto un omaggio agli anni dell’università a Cagliari. Mi sono laureata in Filosofia e anche Violetta studia filosofia: un pochino ho studiato la chitarra classica, e questo mi ha aiutata ad accompagnare lei nei suoi studi al Conservatorio (ma Violetta è bravissima, io non lo sono mai stata). Elias a Roma vivrà a Montespaccato, dove ho abitato anche io quando ho frequentato la scuola di giornalismo della Luiss: i viaggi interminabili in autobus che farà lui ogni giorno li ho fatti pure io. Diciamo che l’architettura del romanzo è basata su luoghi che ho conosciuto da vicino e nei quali sono ritornata durante la lavorazione del romanzo, quando ho avuto bisogno di ripercorrerli per immaginare gli stati d’animo dei miei protagonisti, ormai reali dentro di me. I caratteri e le scelte che fanno, però, sono soltanto loro, me li hanno suggeriti passo dopo passo. Quando ho cominciato a scrivere Il vento non lo puoi fermare sapevo dove volevo arrivare, ma non come ci sarei riuscita. Questa è stata una scoperta fantastica, anzitutto per me. E spero lo sia anche per il lettore.

 

Credits foto: Maki Galimberti

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