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Cosa significa essere un reporter di guerra oggi, la testimonianza di Fulvio Gorani

Cosa significa essere un reporter di guerra? Ce lo racconta Fulvio Gorani, per anni inviato di guerra per la Rai, prima nell'ex Jugoslavia e poi in Iraq e in Medio Oriente

In guerra per resistere non soltanto per la loro terra ma anche per noi, per evitare che tutti i valori della democrazia vengano spazzati via. Definisce cosรฌ gli ucraini impegnati al fronte per respingere l’invasione russa Fulvio Gorani, per anni inviato Rai presso i luoghi di conflitto, prima nellโ€™ex Jugoslavia, poi in Medio Oriente, Afghanistan, Iraq, Israele. Tutte esperienze diverse e difficili, trattandosi di paesi culturalmente e geograficamente molto diversi, ma che hanno insegnato a Fulvio lโ€™importanza di non dare mai nulla per scontato, soprattutto tutte quelle cose che nel nostro quotidiano ci sembrano normali o addirittura banali, e che invece in alcuni luoghi del mondo mancano e rappresentano un ambito traguardo.

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Fulvio Gorani ci ha raccontato la sua esperienza di reporter di guerra, una testimonianza che ci aiuta a capire quello che stanno vivendo oggi i suoi colleghi impegnati in territori a rischio come l’Ucraina, ma anche in tutte le altre parti del mondo in cui purtroppo esiste una guerra da raccontare.

Dรฉjร  vu di un inviato di guerra

Quando, il 24 febbraio di questโ€™anno, mi sono svegliato e ho visto il telegiornale del mattino, ho pensato: -โ€ No, ancora!โ€- Mi ero illuso che non avrei piรน sentito parlare di guerra anche se nel mondo ce ne sono ancora tante, troppe, che si combattono, ignorate e lontano da noi. Nessuno ne parla e quindi non esistono.

Eppure in ognuna di queste guerre cโ€™รจ gente che soffre e, purtroppo, che muore. Sembra facile retorica ma per me, che ho sentito troppe volte il fischio dei proiettili e il rombo dei cannoni, ogni qualvolta sento parlare di battaglie, di guerra, non posso fare a meno di pensare a chi soffre a chi รจ piรน debole.

Mentre gli eserciti fanno a gara per smaltire i loro magazzini di munizioni scaricandosele addosso reciprocamente, la popolazione civile scappa, si nasconde e troppo spesso, muore.

Naturalmente sono i vecchi, le donne ed i bambini a diventare i piรน fragili, quelli che non si riesce a proteggere diventando incolpevoli e inconsapevoli vittime della stupiditร  umana.  Come la vecchia contadina bosniaca che in un gelido giorno di guerra, sotto una nevicata pazzesca, mi offre un caffรจ scusandosi perchรฉ non ha lo zucchero.

Come il vecchio italiano, arrivato in Bosnia alla fine della seconda guerra mondiale che, in una Sarajevo assediata da mesi, mette nella sua pipa dei fili dโ€™erba seccati perchรฉ non ha piรน tabacco e ride felice quando, due settimane dopo, ritorno li e gli regalo una scatola di tabacco inglese. Vive in una casa resa gelida dallโ€™inverno balcanico.

Nessuna possibilitร  di riscaldarsi a Grbavitza, nel quartiere serbo delle capitale bosniaca; deve accontentarsi di pochi pezzetti di legno, piccoli rami, raccattati qua e la, da mettere nelle stufa per ottenere una fiammella breve e illusoria che non riesce a penetrare il gelo delle pareti domestiche. Eppure mi guarda sorridente, noncurante del freddo, con quella bocca sdentata mentre stringe il cannello della pipa in cui sfrigola, finalmente del tabacco e mi fa vedere con orgoglio il suo vecchio passaporto italiano ormai scaduto da tempo.

Sono due esempi tra mille di una capacitร  di sopravvivenza a noi ormai sconosciuta che rivedo negli occhi dei profughi ucraini che cercano riparo in Polonia e in Moldova. Riscopro, negli occhi dei bambini inquadrati dalle telecamere, la stessa scintilla vitale che avevo visto nei ragazzini musulmani a Srebrenica dopo lo sterminio dei loro padri da parte della soldataglia del generale Mladic. In quelle strade come quelle di Kiev, di Mariupol, ci sarร  lo stesso, terribile odore di morte.

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Mi stupisce sempre la capacitร  di sopravvivere, quella che avevano negli occhi i sopravvissuti alla guerra in Iraq. Una irrefrenabile voglia di esserci, ancora, comunque, condita con enorme spirito di adattamento. Una capacitร  quasi primordiale di accontentarsi del poco, del quasi nulla che ti viene dato.

Vedo le madri di Kirkhov, scappate a Leopoli tenendo per mano i loro figli. Li guardo e mi ritorna in mente la fierezza del ragazzino afghano che mi mostrava quasi con orgoglio la ferita al fianco provocata da una scheggia impazzita, quasi a dire: โ€œIo ci sono ancora, sono vivo e non ho paura, se credevano di farmi paura facendomi questo, si sono sbagliati!โ€

Mi sono trovato spesso con gli occhi pieni di lacrime, io che sarei comunque tornato nella mia casa, al sicuro; loro, i bimbi di queste guerre sciagurate hanno sicuramente pianto. Piangono, ovvio, ma riescono ad inghiottire le lacrime per non far vedere ai grandi che sono terrorizzati, anche se ne hanno tanta di paura, un qualcosa che resterร  dentro di loro, forse per tutta la vita.

Non so dire quando e come tutto questo orrore finirร , non so se gli sforzi diplomatici porteranno ad un qualche risultato utile oppure se siamo soltanto al prologo di un qualcosa di ancora piรน spaventoso. Arriverร  il momento in cui il popolo ucraino potrร  ricostruire quello che la guerra ha distrutto. Ciรฒ che sarร  molto piรน difficile ricostruire sarร  la fiducia e la serenitร  nellโ€™animo degli ucraini.

Stanno combattendo e resistendo non soltanto per la loro terra ma anche per noi, per evitare che tutti i valori della democrazia vengano spazzati via. E di questo, credo, dovremo essere loro eternamente grati.

Fulvio Gorani

 

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