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Afganistan, un Paese che non accetta il nostro concetto di democrazia

Fulvio Gorani, giornalista e inviato di guerra per la Rai racconta l'Afganistan attraverso gli occhi di chi ha conosciuto bene il Paese e la sua popolazione

Penso che per cercare di capire, dico cercare, un poโ€™ lโ€™Afghanistan, bisogna andarci. Da occidentali non riusciamo a comprendere come possa un popolo vivere per almeno quarantโ€™anni in uno stato di guerra perenne. A conquistarlo, ci avevano provato gli inglesi, piรน di un secolo fa, ma sono stati brutalmente sconfitti. Ci hanno provato i Russi quando la Russia si chiamava ancora Unione Sovietica e lโ€™Armata Rossa era un esercito formidabile. Lo avevano occupato mettendo al potere un governo fantoccio, avevano resistito per un po di anni ma, complici anche gli americani che foraggiavano la resistenza interna, erano dovuti tornare a casa non prima di aver distrutto piรน di mezzo paese. Ci ha provato, in tempi piรน recenti anche Bush figlio che, dopo lโ€™11 settembre aveva messo il Paese nella lista degli stati โ€œcanagliaโ€. Gli americani ci hanno messo ventโ€™anni, piรน di mille miliardi di dollari e duemilacinquecento soldati caduti per capire che la democrazia, come la intendiamo noi occidentali, li non poteva attecchire.

Afganistan una Terra difficile da conquistare

Ci sono molti fattori che entrano in gioco in Afganistan. Innanzitutto, la conformazione geografica, un terreno tuttโ€™altro che facile da controllare. Una societร  organizzata per famiglie, tribรน, etnie cosรฌ diverse da rendere difficile anche i piรน elementari rapporti di convivenza. Marco Polo che ci รจ passato, scrive di una terra rigogliosa, alte montagne, fiumi e cascate, miniere ricche di metalli e pietre preziose, pascoli rigogliosi e tante terre aride. Narra anche di gente fiera, di guerrieri feroci, diffidenza verso lo straniero e di lotte continue per il potere. Secondo me ci aveva preso in pieno.

L’arrivo in Afganistan

La prima volta che sono atterrato allโ€™aeroporto di Kabul (la capitale dell’Afganistan) nel 2002, i talebani erano stati appena sconfitti dalle forze della coalizione. Per strada vedevi evidenti i segni dei combattimenti. Dappertutto macerie e distruzione.Vecchie case crivellate di colpi recenti accanto ad altre rovine della guerra precedente. Kabul era una tipica cittร  del centro Asia: traffico caotico, polvere dappertutto, una moltitudine di persone che trascina stancamente la propria vita. Qui il tempo pareva non avesse alcun significato. Anche lโ€™aeroporto viveva di questa immobilitร , estranea a noi occidentali.

In realtร , in Afghanistan, cโ€™ero giร  stato un paio di anni prima nel 2001 al seguito di una missione governativa. Avevo avuto la possibilitร  di visitare anche la localitร  di Bamiyan, prima che i talebani pensassero bene che idue Buddha scolpiti nella montagna potessero essere pericolosi per lโ€™educazione religiosa del popolo e senza tanti preamboli li avessero distrutti, cancellando una testimonianza di un passato che oltre ad essere multietnico era stato anche multireligioso. Ma quella visita era stata troppo breve troppo pilotata perchรฉ io riuscissi in alcun modo ad entrare in sintonia con gli afghani. Stavolta, nel 2002, tutto sembrava piรน semplice. I talebani erano stati sconfitti, la capitale pullulava di pattuglie di soldati occidentali, cโ€™era un diffuso senso di sicurezza e complice la stagione primaverile si poteva girareindisturbati, almeno di giorno, per la cittร  e dintorni.

I Talebani non sono mai stati sconfitti

Oggi se ci rifletto capisco che i talebani non erano stati assolutamente sconfitti. La maggior parte di loro si era limitata ad accorciarsi la barba. Credo che aspettassero solo il momento buono per tirare fuori di nuovo le armi. Nel 2002 in Afganistan cโ€™era molto fermento. Erano arrivati e continuavano ad arrivare un mucchio di soldi, la cittร  era tutta un cantiere. Il vecchio Hotel Intercontinental era stato ripulito in fretta e furia per accogliere decine di giornalisti che da tutto il mondo arrivavano in una terra che, per alcuni anni era stata loro chiusa quasi del tutto. Nelle vie del centro riaprivano i negozi e dietro alle vetrine polverose venivano esposti vestiti di foggia occidentale. Poco importa se non cโ€™era lโ€™elettricitร , si usavano i generatori che riempivano lโ€™aria di un insopportabile puzza di gasolio. 

In Chicken Street, una delle arterie piรน popolari di Kabul, avevano riaperto anche le gioiellerie che offrivano pietre preziose, molte volte non di eccellente qualitร , a prezzi ridicoli. I negozi erano invasi da soldati americani che compravano di tutto, non contrattando mai sul prezzo, guadagnandosi cosรฌ una certa dose di disprezzo da parte dei commercianti che invece consideravano la trattativa parte essenziale ed onorevole della vendita. In una bancarella avevo scovato una vecchia guida turistica degli anni โ€™60    o โ€˜70 e mi ero stupito vedendo che in quegli anni a Kabul cโ€™erano le filovie e le ragazze andavano allโ€™universitร  indossando la minigonna. Mi ricordo di una foto, un gruppo di cinque o sei ragazze vestite di bianco, con delle gonne sopra il ginocchio, i capelli neri tagliati a caschetto che ridevano tra loro davanti ad un bar.

Fulvio Gorani, Afganistan

Covid 19, il drammatico racconto di Fulvio Gorani positivo al Virus

Fulvio Gorani, giornalista e inviato di guerra per la Rai racconta i drammatici momenti della positivitร  al Covid 19.

Afganistan, l’invasione Usa dopo l’11 settembre

Dopo questo periodo di relativa tranquillitร  la storia afghana racconta di tutta una serie di accadimenti drammatici: la deposizione del re Mohammed Zahir Shah nel 1973, la caduta conseguente della monarchia, lโ€™invasione russa del 1979 – ufficialmente a sostegno alla fazione del PDPA di Karmal contro quella di Amin – la guerra tra i sovietici e i mujiaidin, nove anni di combattimenti (ennesimo episodio della guerra fredda), le lotte interne tra i vari signori della guerra – queste ultime due con quasi due milioni di morti. Ci fu anche un periodo in cui il popolo afgano si illuse di aver trovato una guida con Ahmed Shah Massoud, il Leone del Panshir, che venne ucciso da due sedicenti reporter tunisini che dicevano di lavorare per una emittente televisiva marocchina il 9 settembre 2001, due giorni prima dellโ€™attentato alle Torri Gemelle. Lโ€™omicidio venne compiuto mettendo dellโ€™esplosivo allโ€™interno di una telecamera. Unโ€™inchiesta stabilรฌ che lโ€™atto fosse riconducibile alla galassia qaidista.

Infine nel 1995, la presa del potere dei Talebani, sedicenti Studenti Coranici di aerea iraniana, per lo piรน giovani illetterati, spesso analfabeti, seguaci del mullah Omar, suggestionati da dottrine fondamentaliste abilmente inculcate da insegnanti non afghani ma provenienti da Pakistan e Arabia Saudita, Lโ€™aver dato rifugio ad Osama Bin Laden, capo di Al Qaeda e responsabile dellโ€™attentato alle Torri Gemelle, spinse G.W.Bush ad entrare in guerra con i Talebani che vennero sconfitti nel 2005. Fu una guerra difficile, combattuta in cielo e in terra con un dispiegamento di uomini e mezzi di una Coalizione di paesi occidentali pari solo a quella combattuta in Iraq. I risultati di tale azione oggi sotto gli occhi di tutti, a mio parere, sono un fallimento completo.

Afganistan, un Paese fiero delle proprie origini

Ho vissuto a lungo in Afghanistan, ho avuto buoni rapporti con tanta gente, di tutte le etnie, ho visto negli occhi dei ragazzi la voglia di progresso, in quelli delle donne la voglia di emancipazione. Ho incontrato una popolazione fiera e gelosa delle proprie origini e delle proprie tradizioni. Un giorno, in un paesino a circa 4000 metri di quota ho incontrato un vecchio signore con una lunga barba bianca, il volto bruciato dal sole solcato da mille rughe profonde. Ho saputo poi che aveva solo quarantโ€™anni ma ne dimostrava almeno il doppio. Lโ€™unico ristorante era chiuso ma lo hanno aperto per me. Davanti ad un fumante piatto di kebab, in un approssimativo dialetto Farsi che anche il mio bravissimo traduttore faticava a capire, il vecchio mi ha detto: โ€œSono piรน di ventโ€™anni che non vedo uno straniero (probabilmente in passato aveva visto qualche soldato sovietico ) ma noi, io e te, siamo uguali perchรฉ siamo tutti e due ariani ( il vecchio nome dellโ€™Afghanistan รจ Ariana) e quindi ci capiamo benissimo. Sappiamo entrambi che il popolo afghano ha solo bisogno di pace ma non siamo capaci di conquistacela e non sarร  di certo un soldato straniero, che noi non vogliamo a casa nostra, a procurarcela.โ€

Ecco, io penso che in queste parole ci sia lโ€™essenza del problema. Ci sono le divisioni etniche di natura tribale, gli interessi dei singoli, cโ€™รจ tanta corruzione, tante differenze linguistiche. Una parte del popolo parla il Dari, l’altra il Farsi. Anche la religione rappresenta un ostacolo al progresso; lโ€™Islam piรน radicale con le terribili, inaccettabili e medioevali discriminazioni della donna, la violenza e la prevaricazione nei confronti dei piรนdeboli fa si che ogni tentativo di avere di una vita normale risulta difficile se non impossibile.

 

Afganistan, se non lo vivi รจ difficile da comprendere

Rimane il ricordo di una cittร  con una moltitudine di vecchi, storpi e malandati, che si trascinano per le strade polverose di Kabul alla ricerca di un po di cibo. Restano indelebili davanti agli occhi, gli โ€œstormiโ€ di donne chiuse nei loro burka svolazzanti, delle quali percepisci solo gli occhi curiosi che dietro la retina traforata ti scrutano, quasi ti perforano per lโ€™intensitร  del loro interesse, Continui idealmente a percorrere le strade piene di automobili con un vigile che, ad un incrocio, tenta inutilmente di mettere un poโ€™ dโ€™ordine. Rivedi le mille bancarelle di cibo, il cielo che si colora di marrone per le improvvise tempeste di sabbia per poi tornare ad essere di quellโ€™azzurro cobalto che รจ di questa terra cosรฌ come i lapislazzuli, oggetto di mille e piรน lavorazioni artigianali.

Questo รจ un po’ lโ€™Afghanistan, forse solo il mio Afghanistan ma lo รจ anche un pigro pomeriggio passato accovacciato su di un bel tappeto tessuto a Mazari Sharif nella terra del Nord, quella che fu uno dei tanti campi di battaglia del Leone del Panshir. E mentre bevi un thรจ bollente quello che รจ โ€œChaiโ€ dalla Turchia in lร  discutendo di politica, magari anche di sport, con un gruppo di vecchissimi quarantenni del luogo, capisci che questa terra. Lโ€™Afghanistan รจ una terra che ho imparato ad amare continuando ad andarci fino a quando รจ stato possibile, grazie anche alla mia fortunata amicizia con un grande, preziosissimo uomo che mi ha insegnato tanto, non abbastanza, purtroppo e che ci ha lasciato in questi giorni, proprio mentre quel paese ripiombava di nuovo nel terrore e nel medioevo, Gino Strada.

Fulvio Gorani

 

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