Cosa significa essere un inviato di guerra oggi

25 Marzo 2020

Ce lo racconta Fulvio Gorani, per anni inviato di guerra per la Rai, prima nell'ex Jugoslavia e poi in Iraq e in Medio Oriente

inviarto di guerra

Un desiderio a volte morboso di conoscere ciò che umanamente è diverso da noi, ma senza mai sentirsi al di sopra del pericolo. E’ questo il mestiere del cronista di guerra secondo Fulvio Gorani, per anni inviato Rai presso i luoghi di conflitto, prima nell’ex Jugoslavia, poi in Medio Oriente, Afghanistan, Iraq, Israele. Tutte esperienze diverse e difficili, trattandosi di paesi culturalmente e geograficamente molto diversi, ma che hanno insegnato a Fulvio l’importanza di non dare mai nulla per scontato, soprattutto tutte quelle cose che nel nostro quotidiano ci sembrano normali o addirittura banali, e che invece in alcuni luoghi del mondo mancano e rappresentano un ambito traguardo. Fulvio Gorani ci ha raccontato la sua esperienza di inviato di guerra, una testimonianza che ci aiuta a capire quello che stanno vivendo oggi i suoi colleghi impegnati in territori a rischio come la Siria e l’Iran.

  

Cosa ti ha portato a diventare un inviato di guerra?

Chi affronta il mestiere di giornalista è solitamente una persona curiosa. Io sono sempre nutrito interesse verso tutto ciò che avveniva al di fuori del mio mondo. Nasco nel 1951 in una città, Trieste, che all’epoca risentiva dell’influenza jugoslava, con un sistema politico e sociale diverso dal nostro. Quando ho cominciato a lavorare in Rai mi sono occupato di cronaca locale, ma quando ho avuto la possibilità di occuparmi di ciò che accadeva lontano da me nel 1989-90 ho iniziato a seguire la crisi nell’ex-Jugoslavia, prima con il conflitto in Slovenia, poi con la guerra in Bosnia. Alla base di tutto c’è un desiderio, quasi morboso, di capire e conoscere tutto quello che è umanamente diverso da noi.

 

Durante l’attività di cronista presso i luoghi di conflitto, è possibile scindere il lato umano da quello professionale?

La separazione netta è impossibile: prima di essere giornalisti siamo esseri umani, è impossibile non venir contaminato da ciò che accade. Una certa dose di cinismo con il tempo ti porta ad avere un approccio più freddo nei confronti del nemico principale rappresentato dalla morte. Come cronista devi comunque sempre cercare di mantenere un minimo di sangue freddo che ti faccia vedere le cose con un po’ di oggettività, un’abitudine non semplice ma che si apprende con l’esperienza. La paura è un sentimento utile, che consente di essere più prudente in merito a ciò che fai, evitando così errori spiacevoli o letali. Facendo questo lavoro, il grosso rischio è quello di sentirsi al di sopra del pericolo: quando si affronta una situazione difficile, non si deve mai dimenticare che ogni proiettile sparato non ha nessuna destinazione precisa, per cui la prudenza non è mai troppa.

  

Ci vuoi raccontare un aneddoto emblematico di ciò che significa essere cronista nei luoghi dove si combatte una guerra?

L’inviato di guerra vive in condizioni estremamente difficili, senza l’accesso ad alcuni servizi che i più durante il quotidiano danno per scontato. Alle difficoltà di carattere pratico si somma il pericolo quotidiano dovuto al vivere a poca distanza da dove si sta tenendo un conflitto.

Nei luoghi di guerra mi ha sempre colpito la sofferenza di due categorie di persone: i bambini e gli anziani. Osservare i ragazzi piccoli in una condizione di sofferenza inevitabilmente ti turba, perché vedi negati gli elementi essenziali di sopravvivenza. Un episodio estremamente drammatico che posso raccontare riguarda la mia esperienza a Srebrenica dopo la liberazione dai serbi-bosniaci: la cittadina fu tristemente teatro nel luglio 1995 di un genocidio di oltre 8 000 musulmani bosniaci, per la maggioranza ragazzi e uomini, avvenuto durante la guerra in Bosnia ed Erzegovina. Dopo il conflitto riuscii ad entrare nella città appena liberata, camminando lungo una strada interamente coperta da bossoli di proiettili. Ciò che mi ha stupito è che appena siamo entrati in città insieme ad altri colleghi, la gente che viveva da mesi nelle cantine per la paura del conflitto ha avuto il coraggio di uscire fuori perché aveva visto nell’arrivo della stampa e della televisione la fine di un periodo di patimento e morte.

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