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Tentare di sopravvivere – racconto di Angela Vitiello

Ore 21.35, Stazione di Battipaglia

Sola.
Tre ragazzi, pare di ritorno dal mare, ciarlano d’ovvio.
Un omino sta di fronte a me, sul primo binario,
sguardo al cielo, braccia intrecciate:
appare stanco e sconfitto.
Eppure i suoi occhi da qui neppure li intravedo.
Io, seduta su una panchina del binario 4, diretta a Pompei.
E’ buio. Ma sembra giorno.
Un neon sulla testa segna sul foglio la sagoma della mano,
mentre scrive queste poche parole insensate.
Rossi i semafori qualche metro alla mia sinistra.
Cicale lamentano il caldo di questa strana notte estiva.
Si frantuma d’un tratto la luce, appare e scompare:
un treno merci insegue la sua destinazione lontana.
Il frastuono rompe il silenzio. Gli orecchi rombano.
E’ già via, è passato.
Sulle ginocchia la nera borsa metallica pesa. La metto giù.
La cartella, color cielo al tramonto,
fa da provvisoria scrivania.
Serrato nel suo bugigattolo,
il dirigente del movimento si mostra spaventato.
Si affaccia fuori per un attimo, rientra infastidito,
forse dall’aria umida e calda.
Ma non è poi così calda la piacevole brezza che m’asciuga
le carni fradicie e il vestito grondante di sudore.
Mi guardo intorno. Una parola. Rialzo lo sguardo.
Un’altra parola. S’inseguono, parole vuote senza pensiero.
Vane, senza scopo. Libere, senza pregiudizio.
Perse, scomparse, liquefatte, poi ritrovate, semplici,
sottili come gli aghi del vicino pino.
Non un pensiero, non un sentimento, nessuna sensazione.
E’ così raro! La chiamerei pace. Ardirei chiamarlo amore.
Io che non so amare, amo stare qui.
Non sento più la mia stupidità, non l’inutilità,
la mia sofferenza. Potessi rimanere qui in eterno!
Dio mio! E’ questa la felicità? La pace di ogni senso,
il silenzio d’ogni pensiero, il riposo d’ogni tormento?
Morirei ora, morirei qui.
Qui che appartengo al buio vento senza immagine di futuro,
ora che non ho memoria del passato né percepisco presente.
Senza tempo. Una dimensione senza tempo.
Sono invisibile in anima e corpo:
frammento informe nel buio.
Ad un tratto il sereno si spezza.
Il mio treno appare in lontananza come una lucina.
Sento nuovamente me: esisto, purtroppo esisto!
Incapace, inetta, insignificante, io.
Il treno è già così vicino! Avverto la paura.
La paura che mi possiede perché so di esistere,
la paura che ho di vivere.
Già rimpiango l’effimero angolo di assenza di me.
Qualcuno mi si avvicina, sembra rivolgermi la parola:
“Ferma a Pompei ?”. Faccio cenno di sì con la testa.
Sono più sola che mai, più vuota di prima.
Inutilmente infelice.
Perdonami cara panchina, con malinconia ti lascio.
Ecco il treno! Devo salire. Devo sopravvivere.
Tentare di sopravvivere.

 

Angela Vitiello

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