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L’uomo che cucinava le nuvole – racconto di Chiara Conti

Alzò lo sguardo verso il cielo e respirando a lungo e rumorosamente, lasciò che lo splendore gli entrasse attraverso le narici e gli riempisse i polmoni d’arcobaleno.
Sapeva già da tempo e da un tempo così lontano che pareva eterno, che scrutando il cielo con attenzione, ma veramente con attenzione ,non sarebbero state le sfumature dell’indaco a rimanere impresse sulla cornea. Piuttosto si sarebbero alternati saltando davanti agli occhi come piccole pulci, i sette colori che compongono l’iride.

Ma quella sera, accidenti, quella sera l’aere era tinto delle fosforescenti faville delle anime e per un lunghissimo attimo smise di sentirsi solo in quel denso silenzio che precedeva il giorno, intriso come si trovò di meraviglia.
Propagandosi con la velocità di un’eco lontana iniziava a giungere dall’unica luce accesa tutt’intorno un tenue odore di caffè. Si era svegliata. Lanciò uno sguardo verso la splendente torre d’avorio a mo’ di saluto e nell’istante immediatamente successivo gli parve che essa rispondesse piegando i merli e levando le tendine a guisa di sorriso.

Poi tornò a fissare il cielo. Nelle prime luci dell’alba aveva lasciato dissolvere le gradazioni di arancio per spalancare davanti a sé l’infinita gamma dei verdi. Tutti intorno ancora dormivano. Tutti tranne lei che tesseva la tela di ragno imperlata dai sudori della notte, prima che il giorno li evaporasse via con sé. Era quello il momento per farlo. Non prima. Le tenebre si sarebbero opposte al raccolto e avrebbero spinto sulla candida trama della tela cancellandone l’ardito intreccio. Non più tardi, che l’alba avrebbe inghiottito le sfumature della rugiada e non sarebbero sopravvissute al pulsare tumultuoso dei rossi.

Tra poco avrebbero iniziato a trillare le sveglie, una dietro l’altra. Da ogni direzione. E dai letti caldi e dai rifugi sicuri si sarebbero schiusi esseri umani di ogni taglia. Si sarebbero messi a correre verso la sera. Come se la velocità con cui questa si sarebbe affacciata avesse qualche connessione con le loro attività. Aveva provato a spiegarglielo una volta. Senza alcun risultato evidentemente , visto che continuavano a correre come criceti nella ruota del giorno, fino all’allungarsi delle loro stesse ombre.
Ignari di lui e del suo sguardo vigile su di loro.

Ad onor del vero, non era proprio loro che guardava, ma sfiorando il suo sguardo l’infinito, di certo non ne erano esclusi.
Continuavano a correre dunque, a differenza di quel faceva lui , che da un tempo così lontano che pareva eterno, aveva appeso le ruote del suo carro al muro. Non trotterellava più alla ricerca, aspettando invece tranquillamente che l’universo girasse sull’asse delle intenzioni e giungesse il momento che il pensiero si sarebbe reso fatto. Seduto sulla sua poltrona, reclinava lo schienale, si accendeva la pipa e voltava gli occhi in alto con il naso appeso all’insù.
Nel cielo oramai divenuto cristallino facevano sfoggio delle loro danze piccoli soffi di un chiarore cristallino che senza alcuna fretta si lasciavano rimirare. Sembrava proprio che la giornata fosse iniziata nei migliori dei modi. Forse almeno per poche ore nessuno si sarebbe lamentato. Quegli esseri pensanti laggiù speravano da anni in inverni miti e soleggiati. L’avevano voluto così tanto che alla fine si era deciso a concederglieli. E lui aveva creato per loro manti soffici e delicati di bianchi cumuli di nuvole. Tappeti di candidi cerchi protesi all’infinito. Sterminate steppe di animali selvatici e fieri. Si era divertito a creare immagini di tenerezza spruzzata di vapore.

Ma poi avevano ripreso a lamentarsi. Non pioveva da troppo tempo. Allora prese nuclei di soffice bianco e con cura aveva cucito loro tutto attorno corazze pronte alla lotta. Intere scorte di matasse di tela di ragno erano servite per rivestirli di instabili vestiti che una volta lanciati nel cielo si sarebbero trasformate in tuoni e fulmini e saette e dopo aver mostrato tutta la loro impertinente potenza si sarebbero scagliate al suolo fluendo come acqua. Ne era così orgoglioso.
Era stato una lavoro di certosina pazienza. Aveva atteso che sprazzi dei colori giusti passassero sulla sua testa, per catturarli e assemblarli nel dono più maestoso che avrebbe mai potuto immaginare.
Allora la pioggia diventò troppa. E ripresero a lamentarsi.

Pazientemente si riaccese la pipa e si stese ad aspettare gli ingredienti giusti per porgere loro un cielo sereno, punteggiato di placida tranquillità.
Ora, pensava, si sarebbe potuto godere un poco di pace. Qualche ora, addirittura tutta una mattinata senza sentir frignar nessun.
Non fu così. Iniziò senza troppo clamore con una piccola nuvoletta bianca e paffuta. Gli passò davanti agli occhi lentamente, quasi a passo di danza. Non era particolarmente aggraziata , ma aveva quel qualcosina che a lui pareva magico. Si soffermò a guardarla compiaciuto. Seguì il suo incedere grazioso canticchiando il motivetto a cui pareva muoversi. Finché non le mostrò il fianco. Solo allora si accorse che la tela di ragno aveva ceduto e penzolava inerme fino a terra, trasformando la piccola nuvola in un palloncino ad aria compressa. Proprio all’altezza del costato gli strati di vapore si erano spalancati e un rivolo costante fuoriusciva. Da quella spaccatura dentata , a guisa di fauci, fluiva un carminio vivace che tingeva il cielo delle sfumature del tramonto , senza che fosse il tempo per lasciar declinare il giorno. Appesi a quell’ unico filo uno sciame di bambini si alternavano a strattonare il loro nuovo trastullo. Ridevano e tiravano e la ferita si allungava lasciando evaporare tinte di rosso sempre più scure e intense. Come se dopo il sangue fosse venuto il momento della carne di essere lacerata. Senza alcun rumore. Senza neanche un gemito. Così piange il dolore più profondo. Con un vagito muto che sarebbe riuscito a stillare i brividi anche al cemento grezzo dei muri.

Fu solo un attimo di silenzio necessario all’allerta, prima che corresse alle matasse di tela e si gettasse sulla ferita per rammendare lo strappo. Strattonò il bandolo per allontanarlo da terra e dai suoi abitanti. Bastarono pochi,rapidi ed ampi gesti per bloccare il flusso di lava e assestarlo su di un rosa che presto mescolò con un briciolo di speranza, prima di rigettarla in cielo.
Quella notte non riposò bene. Continuava a pensare. La riparazione era stata veloce, era vero, ma non riusciva a capire. Come era potuto succedere. Non c’erano state avvisaglie. Era stato attento, ne era sicuro. Una cosa del genere. No. Ne era proprio sicuro. Non avrebbe potuto sfuggirgli.
Quando la mattina giunse si era pienamente convinto che l’importante era stata la tempestività con cui era riuscito ad arginare le perdite e si era alzato dal letto sì insonnolito, ma anche soddisfatto di sé tanto da congratularsi dandosi una bella pacca d’intesa sulla spalla.
Si sistemò quindi sulla sua branda nella dolce attesa di scorgere la fiammella della luce sulla torre, che l’aroma del caffè arrivasse a solleticargli il naso e che i primi spruzzi di vapore si presentassero in cielo per assemblarli magistralmente in cumuli e nembi disposti a suo piacimento nei vari strati dell’atmosfera.

La tela aveva preso a filare. Tra poco lo spettacolo avrebbe iniziato a danzare.
Nel cielo leggermente terso dei primi d’autunno presero a sfilare nuvole lunghe e sottili, arazzi del grande palazzo celeste. Passarono i gregge degli dei e subito dopo il pendio di quella che pareva una collina, si rincorse l’acqua di un fiume. Era bravissimo. Stava creando per il mondo intero spettacoli di ombre di vapore sulla luce del giorno. E’ bene ogni tanto affrontare qualche difficoltà, se poi si migliora e ci si perfezione sempre più. Ieri era già un ricordo lontano sulla visione di nuove prospettive. Canticchiava pacatamente le sue doti, quando intravide una nuvoletta panciuta e cicciottella ciondolargli davanti agli occhi. Sorrise divertito guardando il piccolo intruso che gli si accostava. Chissà da dove era venuta. Forse un refuso di qualche navicella interspaziale. Si muoveva a sobbalzi disarmonici e seppur di poca grazia, non si poteva non provare per lei una certa simpatia. Dondolava e ciondolava. Lentamente verso destra. E poi senza fretta verso sinistra. Finché un colpo di tosse del vento non la fece roteare completamente. Sul lato all’opposto si mostrò un rivolo di arancione che inarcava senza sosta il flusso e ricopriva il primo strato dell’atmosfera, perforando il blu. Brillava mentre ricopriva con impertinenza la perfezione dell’attimo. Di nuovo. No. Senza riflettere afferrò la matassa e scagliandosi di dosso la piccola nuvola, come a ricoprirla in un abbraccio, ricucì lo strappo, lasciando poi che l’allerta scivolasse nel normale flusso di eventi. Rimase impietrito. Immobile, gli occhi fissi nel vuoto. Cosa stava succedendo.

Sibilò la risposta a fil di fiato, ma nessuna eco gli rese la risposta. Non quel giorno. E neppure il successivo, quando si ripresentò la medesima scena tinta di giallo. E poi di verde. Azzurro, indaco ed anche il violetto che quando arrivò lo trovò stremato. Esausto e senza senno. Perso nel tentativo di intercettare cosa sarebbe potuto succedere il giorno a venire.
La catastrofe, erano vicini alla catastrofe. Lo sapeva. L’attendeva.
Gli occhi trasportati dalle borse insonni. L’odore di caffè in lontananza. Quella piccola, tremula e rassicurante luce. Le mani appoggiate dolcemente sul grembo. Il cielo spalancato tra le sue braccia. E le nuvole che come soffi leggeri seguivano voluttuose i capricci delle sue mani.

Tutto pareva tranquillo, ma non sarebbe durato. Oramai lo sapeva e non aveva nessuna intenzione di riprendere ad illudersi. Lentamente una nuvola si capovolse e un piccolo rivolo di colore prese a cadere in verticale, verso il globo terrestre. Di seguito un’altra, si reclinò per rilasciare la tinta di cui era riempita. Fece seguito la terza, che dopo essersi allineata si lasciò stillare. E la successiva e quella che le faceva seguito ancora. I sette colori dell’arcobaleno comparvero nel cielo senza tuoni, precipitando ma senza fretta. Scendevano con garbo, completamente a piombo, dritti come fusi. Densi e puri i colori si aprivano davanti ai suoi occhi. Il suo cuore prese a tremare ed il respiro si fermò per un istante, restando mozzo in gola. Rimase a fissare i rivoli così intensamente che fu il primo, se non l’unico a cogliere l’istante in cui improvvisamente presero a scorrere in orizzontale e così proseguirono per alcuni metri. E sempre il suo sguardo era inchiodato lì quando di nuovo si precipitarono a testa in giù verso il pavimento di sabbia.
Continuarono ad intercalare le direzioni fino ad esaurire il moto e a planare dolcemente a terra.
Una scala. I colori si erano disposti lungo una scala.
Ora non rimaneva che aspettare per scoprire se qualcuno sarebbe salito.
Oppure sceso.

 

Chiara Conti

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