Sei qui: Home » Racconti » Le ombre dei pini – Racconto di Barbara Sanrocchi

Le ombre dei pini – Racconto di Barbara Sanrocchi

Cammino sulle ombre dei pini ed è come se fosse estate. Però so bene che non è estate perché le ombre lunghe coprono quasi tutto il marciapiede e il confine tra buio e luce è più vago.
Le vene delle radici invece sono le stesse, a disturbare allegramente il ritmo dei miei passi.
Da bambini in bicicletta ci passavamo e ripassavamo sopra ridendo per gli sbalzi sul sellino. Gino sobbalzava più di me perché aveva la Saltafoss. Io invece una Graziella arancione col cestino. Gino aveva sempre tutto molto più bello di me. Di noi tutte. Era l’eletto. Il maschio, bello, biondo con gli occhi azzurri in mezzo a quattro sorelle more e femmine per di più.

Poco prima di svoltare nella strada di casa una signora elegante mi avvicina, si presenta, mi porge le sue condoglianze più sentite e mi dice che non conosceva molto bene Gino ma che era la persona più galante e cortese che lei avesse conosciuto. Lo incrociava tutte le mattine andando in ufficio e tutte le mattine lui la salutava garbatamente, chinando leggermente la testa. Come avrebbe potuto mancare il suo funerale?
La ringrazio e proseguiamo una accanto all’altra fino a casa. Io mi fermo, lei prosegue verso la chiesa.

Gino è in camera sua, nel completo bianco ghiaccio, di un tono appena più scuro dei suoi capelli che da biondi erano diventati bianchi da tanti anni.
La sua ex moglie siede in un angolo della stanza in ombra, colpevole ai nostri occhi di averlo abbandonato proprio quando aveva più bisogno di lei.
Il suo grande amico Bubu passeggia avanti e indietro in corridoio, la sigaretta che gli pende dalle labbra.
Come gli assomiglia, le stesse spalle ricurve, quel modo particolare di tenere il capo, le braccia lungo i fianchi.

Sconosciuti continuano ad entrare ed uscire dalla stanza di Gino, chi sono tutte queste persone? Tutti ci fanno le condoglianze e dicono una parola su Gino: che humor aveva, è sempre stato un signore, che generosità, al bar offriva sempre caffè e cornetto. Ridono.
Io non riesco ad allontanarmi da lui. Una mano sul bavero della giacca bianca continuo ad accarezzarlo e gli parlo come se potesse sentirmi.
I parenti abbracciano prima la mamma poi noi quindi in sala sorseggiano un caffè e mangiano una pasterella, chiaccherano tra di loro ricordando quanto Gino fosse bello da bambino, che studente eccellente fosse e quanto suo padre fosse fiero di lui.
Si, nostro padre ne era così fiero che quando Gino si ammalò lui divenne cieco per la tristezza e mori prima che poté per non soffrire più. Mamma invece decise che sarebbe restata in vita finché Gino fosse vissuto ma non uscì più di casa, se non per andare alla messa o al ristorante in famiglia. La sua vita sociale era finita per sempre.

È morto da gentiluomo che era” sussurra la cugina di Firenze ad un’altra cugina “Malgrado la gravità della malattia era proprio un gentiluomo, figurati che mi faceva ancora il baciamano”.
Dalla finestra entra una folata d’aria fresca che smuove un po’ i capelli di Gino. Non riesco ad impedirmi di pensare che magari si sono sbagliati ed ora questa brezza lo sveglia. Magari.
Alle cene di famiglia mi sedevo sempre accanto a lui, allora appoggiava la sua mano fresca e asciutta sulla mia e diceva “Ci vogliamo tutti bene “. Poi si alzava, “vado a cercare un po’ di brezza” diceva ed andava a fumare una sigaretta in terrazza.

Un profumo di cipressi entra dalle mie narici: senza che me ne sia accorta la bara è stata chiusa, siamo tutti usciti di casa, abbiamo ascoltato le parole di Padre Giovanni e siamo stati abbracciati e baciati da decina di bocche e di braccia.
Ora anche la tomba sta per essere chiusa, mattone dopo mattone Gino non ci sarà più.

Aspetto che una lacrima, una stramaledetta lacrima mi aiuti a capire che è successo veramente invece riesco solo ad affondare coi tacchi nel prato. Metto in salvo un piede sul brecciolino e cerco di spostarvi il peso ma sollevandola la scarpa resta nel prato e, mentre il tallone si stacca dal fondo, una smagliatura parte come una saetta e sale su su fino al polpaccio. Gino mi diceva sempre che ero la più elegante della famiglia, ma il più elegante era lui.
Anche quando era in clinica le infermiere lo adoravano, con la barba lunga, le patacche sulla Fred Perry azzurra e il blu degli occhi annacquato dalle medicine Gino era sempre il più bello.
“Vede signora” – ci aveva spiegato il dottore – “suo fratello resterà sempre suo fratello, la malattia gli impedirà probabilmente di avere una vita normale ma essendosi manifestata quando aveva già vent’anni la sua personalità era già formata e non cambierà più. Avrà alti e bassi, ci saranno momenti in cui non lo riconoscerete e lui stesso non si riconoscerà ma voi che lo amate non lo perderete. Resterà lui. E poi in fondo, dove finisce la normalità e dove comincia la follia?
Hanno messo l’ultimo mattone. Ora tutto è chiuso. Poso il pacchetto di Marlboro morbide di Gino ed il suo accendino nero accanto ai fiori e, senza alzare gli occhi da terra esco dal cimitero.
Tuona lontano. Forse pioverà.

 

Barbara Sanrocchi

© Riproduzione Riservata