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Canzone della triste rinuncia – racconto di Annamaria Nuzzo

«La prego, signor Manno, mi dia un altro po’ di tempo!»
Un uomo tarchiato e dallo sguardo torvo scosse ripetutamente la testa a quella richiesta d’aiuto. «Entro lunedì voglio i soldi per l’affitto, altrimenti…» si avvicinò minaccioso al ragazzo e con un ghigno di perfido divertimento sul viso aggiunse: «sarà meglio che prepari le valigie!»
Mentre l’uomo scendeva velocemente le scale, diritto nel suo appartamento, Leonardo si passò una mano tra i capelli.
Era nella merda.
Faceva i doppi turni nella pizzeria “Anima e cuore” da più di sei mesi e tutto ciò che era riuscito a racimolare erano i soldi per l’affitto e per l’autobus. E ora rischiava di perdere anche la sua “casa” – se la minuscola mansarda in cui viveva poteva essere definita così – per il ritardo di Luca, il suo datore di lavoro, nel dargli lo stipendio. Se questo non bastasse, lunedì aveva anche la consegna del progetto finale a cui si stava dedicando da settimane, senza ottimi risultati. Chiuse la porta violentemente, in preda al nervosismo, e la maniglia si staccò precipitando a terra con un rumoroso tonfo.
Stava sprofondando nella merda.

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Un anno fa

Liceo, università, lavoro, famiglia: un percorso lineare tacitamente imposto e accolto da tutti. Avrebbe dovuto frequentare il liceo classico, passando pomeriggi interi tra declinazioni e perifrastiche, scegliere giurisprudenza all’università, deliziandosi con fredde leggi e lunghi tomi da studiare, e, conseguita la laurea magistrale a ciclo unico, svolgere per due anni praticantato presso lo studio di suo padre, sostenere l’esame di abilitazione alla professione , iscriversi all’Albo, occupare il posto di avvocato nell’ufficio legale del padre e infine – se tutto questo non fosse abbastanza – crearsi una famiglia: ecco il piano, congeniato appositamente per lui e che lui stesso non aveva rispettato , scatenando le ire di suo padre e sua madre e acquisendo il titolo di “pecora nera della famiglia”. Era ciò che stava pensando mentre scendeva dall’autobus, la scritta “Stazione di Napoli Centrale” davanti a sé.
Nel loro folle piano di vita, i genitori non avevano considerato il fuoco indomabile che ardeva in lui e che non poteva essere rinchiuso in un’aula universitaria, benché meno in un tribunale; la curiosità, suo tratto distintivo sin da piccolo, lo induceva a vagare senza meta per le strade del suo paese, la sensibilità di cui era possessore lo conduceva a notare i particolari, le sfumature della realtà – i ragazzini innamorati nascosti dietro un cespuglio, la vecchia signora che sbraitava contro il conducente dell’autobus per la velocità inaudita (50 km/h), il tramonto ammirato dalla finestra della sua camera – e l’empatia gli permetteva di scorgere nei visi della gente una storia che non tutti riescono a catturare; ma era soprattutto una scelta, la sua: aveva preso la via più difficile, quella della comprensione, e abbandonato la più facile, quella dell’indifferenza, perché non poteva ignorare il senzatetto disteso tra cartoni ad un angolo della strada, l’extracomunitario che aspettava fuori da un supermercato in cerca di spiccioli, lo storpio in metropolitana che si appellava alla pietà dei passeggeri… semplicemente non poteva ignorare queste mute richieste d’aiuto, perché sapeva come ci si sentiva. Era ciò che i suoi genitori avevano fatto con lui.
«Treno in partenza per Roma Termini.»
La voce emessa dall’altoparlante si diffuse tra la folla di turisti, annunciando l’imminente arrivo del treno che l’avrebbe finalmente portato a Roma, la sua personalissima “America”, lontana dal degrado della amata-odiata Napoli. Leonardo si riscosse dai suoi pensieri e trascinò il piccolo trolley, avanzando tra la folla di turisti, famiglie e uomini d’affari che popolava la banchina.

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Entrò in bagno e si sciacquò il viso, augurandosi che l’acqua fresca potesse schiarirgli le idee. Guardò la sua immagine riflessa davanti allo specchio e non si riconobbe. Cos’era rimasto di quel ragazzo di diciannove anni, che armato di diploma, qualche spicciolo prelevato dal suo conto e un grande blocco bianco, aveva lasciato la sua casa per imbarcarsi in una grande avventura, fiducioso che il vento spirasse a suo favore? Nulla, perché tutto si era infranto contro la dura realtà, soltanto un anno dopo. Il trillo del telefono lo riscosse dai suoi pensieri; corse nell’altra stanza, invasa dalle note di Feeling Sorry – la sua suoneria – e lesse il nome sul display: Caterina.
Adesso era completamente nella merda.

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Conobbe Caterina quasi per caso, nella corsia surgelati del supermercato in cui soleva fare la spesa da ormai un mese. Grandi occhi marroni, con pagliuzze dorate al centro dell’iride, una cascata di capelli castani e riflessi ramati a incorniciarle il viso e una spruzzata di lentiggini sulle guance. Lui le rubò l’ultima scatola di Cornetti e lei il suo cuore.
«Eccoti qua!» proruppe una voce cristallina e allegra, riportandolo nella realtà attuale e privandolo della dolce malinconia dei ricordi. «Ma dov’è il tuo materiale?» continuò sorridendo Caterina, la cui ombra oscurava momentaneamente il sole di metà pomeriggio, che rischiarava il parco in cui erano soliti incontrarsi. Leonardo alzò lo sguardo e la invitò con un cenno ad accomodarsi sulla panchina, ignorando bellamente la sua domanda e sperando intimamente che lei demordesse. Ovviamente non fu così.
«Allora» gli disse incrociando le braccia intorno al seno, poco intenzionata a sedersi «che sta succedendo? Sono tre giorni che rifiuti le mie chiamate e ora fingi che non sia successo nulla.» Alzò pericolosamente il sopracciglio, espressione di malcelato nervosismo, e aggiunse, scandendo lentamente le parole: «Con me non attacca!»
Leonardo sospirò e ripeté mentalmente il discorso che si era preparato, dopo aver terminato la telefonata e mentre si cambiava d’abito, e mentre usciva di casa, e infine… mentre la raggiungeva al parco.
Sì, era decisamente un discorso complicato.
Avrebbe dovuto chiederle scusa per le “sparizioni” degli ultimi tre giorni, implorarla di perdonarlo per aver dimenticato di festeggiare il loro anniversario – avevano fatto tre mesi giusto ieri – ; avrebbe dovuto spiegarle che aveva provato – eccome se ci aveva provato – a parlarne con i suoi genitori, ma che gli stessi avevano preferito ignorare la sua richiesta d’aiuto – e lasciarlo sprofondare nella merda – chiarendo apertamente che se lo meritava, di patire come un cane e vivere in un buco, per “aver deluso la famiglia”; e infine avrebbe dovuto ammettere che non ce la faceva più, tra i doppi turni al lavoro e le bollette da pagare, a sostenere anche gli impegni universitari… e che aveva mollato l’università, le lezioni e ovviamente il progetto, il loro progetto.
E lo fece, con calma, senza tralasciare nulla, o almeno ci provò. Caterina lo ascoltò silenziosamente, spostando il peso da una gamba all’altra, senza mai distogliere l’attenzione dagli occhi di Leonardo, che invece tentava in tutti modi di sfuggire al suo sguardo indagatore. Quando la vide avvicinarsi e chinarsi su di lui, con un leggero sorriso in volto, Leonardo rilasciò il respiro, trattenuto fino a quel momento: aveva capito, lei era riuscita a comprendere le sue motivazioni, senza giudicarlo o accusarlo, lei…
«È finita.»
… l’aveva lasciato.

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“Galeotta fu la scatola di gelati e chi la prese”, si potrebbe dire, ma la verità è che all’inizio Leonardo e Caterina mal si digerivano: quel viso dolce e angelico nascondeva un animo forte, incandescente, soleva dire lui, come un vulcano in eruzione, che ben cozzava con la testardaggine e l’orgoglio del ragazzo. Una settimana dopo il primo incontro-scontro, si erano rivisti all’Accademia, durante una barbosa lezione di Storia dell’arte. E poi sull’autobus delle 18:20, e il giorno successivo al distributore di benzina. Si potrebbe parlare di destino, ma semplicemente vivevano nello stesso quartiere. Qualche mese – e coincidenze – più tardi, avevano preso a frequentarsi ogni giorno: da un saltuario SMS alla sera si era passati a messaggi continui, da un caffè al bar a lunghe serate trascorse a casa, sgranocchiando patatine e guardando vecchi film, da qualche confidenza, per lo più involontaria, a lunghe notti di confessioni e kleenex. Si scontravano spesso e si capivano ben poco – lui, costretto a sopportare i frequenti momenti di incontinenza verbale della ragazza e lei, costretta a dare significato al mutismo prolungato di lui -, ma col tempo erano riusciti a trovare un’armonia particolare: entrambi erano consapevoli che la via più breve per accedere alle pulsioni profonde dell’anima, al vero essere sepolto sotto strati di maschere indossate nel grigiore della quotidianità, era l’arte, e su quel terreno comune avevano fondato il loro rapporto. E quando il rapporto stesso si era evoluto da sporadica frequentazione ad autentica relazione, Leonardo le propose di collaborare nel progetto voluto dall’eclettico insegnante di Pittura – “Voglio idee originali e fresche, che diano vita a opere ricche di sentimento!” – lui come autore e lei come modella. Assolutamente contraria alla strumentalizzazione e mercificazione del corpo femminile, Caterina si oppose fermamente, quasi lo strozzò, a dire il vero, quando sentì la proposta “senza senso e fortemente discriminatoria” di Leonardo. Mentre si preparava ad affrontare un’arringa in difesa delle donne e dei loro diritti, Leonardo la interruppe con una frase apparentemente priva di senso.
«Una donna in un prato pieno di tulipani» le disse con il sorriso sulle labbra. Lei balbettò qualcosa e richiuse la bocca confusa. In risposta al suo sguardo interrogativo Leonardo proseguì: «Pur essendo l’emblema dei Paesi Bassi, l’origine del tulipano allo stato selvatico risale alla Turchia. Proprio dal turco deriva il suo nome, tullband, cioè copricapo, turbante in virtù della sua forma…»
«Interessante lezione di storia, ma…»
«… ma la leggenda che ci interessa è di tradizione persiana» continuò lui. «Farhad, un capomastro, dopo la falsa notizia della morte dell’amata – la Regina d’Armenia – si uccise e da ogni goccia di sangue caduta a terra nacque un tulipano rosso. Ed è per questo che il tulipano, e non la rosa come comunemente si pensa, è il fiore che rappresenta il vero amore.»
«Allora» aggiunse guardandola negli occhi «ti va di unirti a me in questo progetto, forse un po’ insensato ma sicuramente non discriminatorio, che ho ribattezzato “dichiarazione d’amore”?»
E lei accettò, un sì assolutamente innocuo rivelatosi però fatale, per loro, situati nel bivio che separava amicizia e amore. Inutile dire quale strada scelsero di percorrere.
Ma adesso che i suoi sogni vacillavano, che tutto rischiava di precipitare miseramente, così come miseramente stava crollando lui, quel terreno comune – l’arte – che li aveva visti avvicinarsi e amarsi era soltanto un campo di battaglia fragile e fangoso. E lui aveva perso.

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“Non voglio prender niente se non so di dare, io e chissà chi decidono ciò che posso,
non ho la voglia o la forza per poter cambiare me stesso e il mondo che mi vive addosso…”

Le note di Guccini inondavano il bar in cui si era rifugiato in cerca di una cioccolata. Come se una semplice bevanda calda avesse potuto scaldargli il cuore. Idiota, era solo un idiota, lei l’aveva capito in tempo e se n’era andata. Ci aveva creduto con tutto se stesso, e lei se n’era andata. Aveva abbassato la guardia, come un cucciolo ferito avevo cercato conforto nei suo abbracci, sperando che le carezze sui lividi si sentissero di più, e lei se n’era andata. Lei se n’era andata e aveva portato con sé una parte lui: l’artista sognatore con le occhiaie marcate e i capelli in disordine, pieno di idee folli e potenzialmente pericolose ma fermamente radicate in lui tanto da diventare possibili, era scomparso.
La cameriera gli porse una tazza e Leonardo la ringraziò con un filo di voce. Guardò la sedia davanti a sé, tristemente vuota, e sospirò: lei se n’era andata e lui non ne era sorpreso.

“E forse sto morendo e non lo so capire o l’ ho capito e non lo voglio dire,
rimangono le cose senza falso o vero, e la rinuncia triste a quello che io ero…”

 

Annamaria Nuzzo

 

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