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“Viatico”, la poesia di Clemente Rebora che immortala lo strazio della guerra

“Viatico” è fra le poesie più note di Clemente Rebora. Rapidi, vividi e potenti, questi versi ripercorrono la violenza della guerra, vissuta in prima persona dal poeta.

La Prima Guerra Mondiale è entrata con prepotenza nella storia e nei prodotti artistici dell’uomo. Sono innumerevoli gli intellettuali che, in tutti i campi, si sono fatti portavoce delle sofferenze causate dal conflitto. Clemente Rebora, poeta vissuto tra il 1885 e il 1957, ci ha lasciato versi indimenticabili sul tema della guerra e della trincea. “Viatico” ne è un esempio. Scopriamola insieme.

“Viatico”

O ferito in fondo alla piccola valle,
avrai chiesto aiuto con molta insistenza
se tre compagni di guerra integri
morire per te che quasi più non eri vivo.
Tra melma e sangue
come un albero abbattuto
e il tuo lamento straziante continuava,
senza pietà per noi rimasti in vita
a contorcerci perché non vedevamo l’ora che finisse,
velocizza la tua morte,
tu solo puoi mettere fine a questa sofferenza,
e ti sia di conforto
nelle tue condizioni di demenza ma ancora cosciente
in questo momento di attesa della morte
l’intorpidimento della sensibilità,
ma ora devi attendere quel momento in silenzio –
grazie, fratello.

Analisi di “Viatico”

La guerra è incominciata da cinque mesi quando Clemente Rebora viene chiamato a prestare servizio. Combatte nella fanteria sul monte Podgora, vicino all’attuale confine con la Slovenia. Gli schieramenti nemici sono divisi dall’Isonzo. È qui che egli assiste alla scena che lo indurrà a comporre “Viatico”.

All’improvviso, un soldato italiano viene colpito ripetutamente alle gambe. Rimane immobile al suolo, fuori dalla trincea, “come un albero abbattuto” (v.6). Poco dopo i compagni accorrono, allertati dai lamenti. Sanno che andare incontro al ferito e provare a trascinarlo al riparo è pericoloso e con tutta probabilità vano, eppure lo fanno lo stesso, assistendo allo strazio di una vita che cede con paura il passo alla morte, di un lamento che sembra l’unica cosa ancora in movimento in quel corpo immobile.

Il pericolo diventa realtà. I tre soldati restano, uno ad uno, vittime dei proiettili, e l’uomo resta solo, a piangere e chiedere disperatamente aiuto, mentre i suoi compagni dietro la trincea lo implorano di arrendersi alla morte per pietà di loro. Il “viatico” indica, nella religione cattolica, il sacramento dell’Eucarestia amministrato come alimento per l’anima utile ad affrontare l’estremo viaggio ai fedeli infermi o in procinto di morire.

I 17 versi liberi di “Viatico” comunicano la drammaticità della scena di cui siamo spettatori per mezzo delle frasi spezzate e del ritmo dinamico. I campi lessicali della guerra e della sofferenza sono prevalenti: “ferito” (v.1), “cadder” (v.4), “tra melma e sangue” (v.5), “lamento” (v.7), “rantolarci” (v.9) etc. Il momento più significativo è forse quello in cui i compagni chiedono al ferito di “affrettare l’agonia”. L’uomo è ormai in una “demenza che non sa impazzire” (v.13), ossimoro che rende tragicamente l’idea di una vita che sta per finire in una grande sofferenza e in una follia che non arriva ad essere incoscienza.

Ai commilitoni non resta che implorarlo perché si lasci morire, con un “grazie, fratello” (v.17) che racchiude molteplici significati: grazie, perché hai combattuto con coraggio; grazie, perché hai condiviso con noi l’orrore della trincea; grazie, perché ci hai fatto comprendere quanto sia dolorosa l’esperienza della morte, e grazie, perché ci hai dimostrato che qui siamo tutti fratelli, nonostante l’inevitabilità della guerra.

Chi era Clemente Rebora

Clemente Rebora, vissuto tra il 1885 e il 1957, è stato un insegnante di lettere, giornalista, poeta e traduttore di autori russi.
Milanese, ha collaborato con riviste quali “La Voce”, “Rivista italiana” e “Diana”. Con lo scoppio della Prima Guerra Mondiale, Rebora viene chiamato alle armi. La guerra di trincea lo cambia profondamente. L’uomo ritorna alla vita di tutti i giorni con difficoltà. I temi della violenza, della guerra e della trincea saranno ricorrenti nella sua produzione poetica.

Nel 1928, Rebora vive un momento di forte crisi che lo porta alla conversione alla religione cattolica. L’anno seguente prende i sacramenti, e viene ordinato sacerdote nel 1936. Nella sua formazione, così come nella sua opera, si possono distinguere tre fasi: la prima è definita “esistenzialistico-letteraria”, la seconda “umanitario-sincretistica”, e l’ultima “filosofico-religiosa”.

 

 

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