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“Un altro lunedì” di Primo Levi, una poesia dantesca che sa di spleen e di ironia

Con "Un altro lunedì", Primo Levi mescola l'aria grigia della stazione torinese di Porta Nuova, le suggestioni dantesche, i ricordi del lager e quella particolare -e familiare- sensazione di angoscia e malinconia di cui è pervaso il lunedì mattina, dando vita a una poesia che sa di spleen e di ironia.

I lunedì mattina hanno sempre uno strano sapore. Profumano di fine e di inizi, monotoni e sempre nuovi contemporaneamente. Momento di “ripartenza”, tanto in senso concreto quanto in quello figurato, il primo giorno della settimana e il nostro rapporto con esso sono legati alla routine, al lavoro, a tutto ciò che ha a che fare con la quotidianità e l’abitudine.

Ecco perché, provvisto della sua verve ironica e dopo aver rimestato fra i ricordi personali, le immagini della sua Torino e le letture dantesche, Primo Levi ha dato vita a una poesia che parla dello spleen del lunedì.

Il componimento che stiamo per leggere si intitola proprio “Un altro lunedì“, è stato concepito ad Avigliana il 28 gennaio 1946 ed è racchiuso nella raccolta “Ad ora incerta” (1984).

“Un altro lunedì” di Primo Levi

“Dico chi finirà all’Inferno:
i giornalisti americani,
i professori di matematica,
i senatori e i sagrestani.
i ragionieri e i farmacisti
(se non tutti, in maggioranza);
i gatti e i finanzieri,
i direttori di società,
chi si alza presto alla mattina
senza averne necessità.

Invece vanno in Paradiso
i pescatori ed i soldati,
i bambini, naturalmente,
i cavalli e gli innamorati.
Le cuoche ed i ferrovieri,
i russi e gli inventori;
gli assaggiatori di vino;
i saltimbanchi e i lustrascarpe,
quelli del primo tram del mattino
che sbadigliano nelle sciarpe”.

Così Minosse orribilmente ringhia
dai megafoni di Porta Nuova
nell’angoscia dei lunedì mattina
che intendere non può chi non la prova.

Megafoni, treni e lunedì

Così Minosse orribilmente ringhia
dai megafoni di Porta Nuova
nell’angoscia dei lunedì mattina
che intendere non può chi non la prova.

Minosse ringhia separando la marea di gente che si presenta in stazione pronta a salire su un treno. Quella creata da Primo Levi è un’immagine in cui vediamo sovrapporsi diversi livelli di lettura: prima di tutto, ci accorgiamo del richiamo dantesco, del “divino” che si mescola all’umano con un elenco di uomini di ogni genere che si recano al lavoro.

Poi, ci rendiamo conto dell’intimità che permea il componimento: il luogo rappresentato è la familiarissima stazione di Porta Nuova, posto che Levi conosce benissimo e che, essendo una stazione, per sua natura correliamo alle partenze, agli inizi e ai viaggi.

L’immagine di Minosse, poi, ha a che vedere sì con il mito dantesco, ma anche con il ricordo – ancora vivissimo e doloroso – di quegli uomini che distinguevano i sommersi dai salvati durante l’esperienza dei lager.

Tanti livelli che si mescolano, come fossero ingredienti preziosi e complementari, per far venire alla luce una suggestione che emerge con circolarità nel titolo e nei versi finali della poesia: è “l’angoscia dei lunedì mattina – che si susseguono uno dopo l’altro, con ciclicità e monotonia -/ che intendere non può chi non la prova“.

Primo Levi

Primo Levi nasce a Torino il 31 luglio 1919, da una famiglia di origini ebraiche sefardite. Il padre, ingegnere elettronico, lavora lontano da casa ma, pur essendo praticamente assente nella vita del figlio, gli infonde la passione per le scienze e la letteratura. Trascorre un’infanzia tranquilla, eccezion fatta per i problemi di salute che arrivano di frequente.

Si iscrive al ginnasio e poi all’università, portando a termine il percorso di studi in chimica e laureandosi nel 1941.

A questo punto, la Storia entra prepotente nell’esistenza di Primo Levi, un giovane con tutta la vita davanti. Come tante altre persone innocenti, anche lui viene deportato in uno dei campi di concentramento ideati da Hitler.

Prima viene mandato a Fossoli, uno dei due campi esistenti in Italia. Poi, viene trasferito a Buna-Monowitz-Auschwitz, dove resterà fino al 26 febbraio 1945, giorno in cui avviene la liberazione dei detenuti superstiti dal campo.

Ciò che permette a Primo Levi di sopravvivere alle sofferenze – fisiche e morali – di cui è testimone ogni giorno, è proprio la laurea in chimica. Il giovane, infatti, viene adoperato in qualità di “specialista” in una fabbrica di gomma.

Al termine di questa terribile esperienza, l’uomo torna in Italia dopo un viaggio estenuante – raccontato nel libro “La tregua” – e sente l’urgenza di dover comunicare a tutti ciò che ha visto e provato durante gli anni di detenzione.

Dalla penna di Primo Levi è uscito, così, “Se questo è un uomo”, un capolavoro della letteratura mondiale che è stato tradotto in moltissime lingue e ha commosso chiunque lo abbia letto.

Levi ha continuato a scrivere e scrivere, raccontando le sue esperienze ma rendendole universali. “La tregua”, “Il sistema periodico”, “I sommersi e i salvati”, “Ad ora incerta” sono solo alcune delle opere che ha scritto esplorando, sempre con successo, diversi generi letterari ma non riuscendo mai a superare del tutto la terribile sofferenza vissuta ad Auschwitz.

Muore l’11 aprile 1987, nell’atrio del palazzo in cui ha sempre vissuto.

Ad ora incerta“, le poesie di Primo Levi

«Chi non ha mai scritto versi?… Anch’io, ad intervalli regolari, “ad ora incerta”, ho ceduto alla spinta: a quanto pare, è inscritta nel nostro patrimonio genetico.»

In realtà, fare poesia non è stata per Primo Levi un’attività marginale o minore; tanto che egli stesso ci racconta di come, scampato al Lager, gli fosse venuto spontaneo fissare la tragedia di Auschwitz nei versi che poi avrebbero aperto “Se questo è un uomo”.

Nei testi poetici qui raccolti la memoria, la pietà, la giusta indignazione e la forza morale di Levi si fanno patrimonio universale, sostanziandosi con la stessa densità e con la stessa potenza che ci sono note dalla sua prosa.

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