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“Tu, poesia”, i versi di Sibilla Aleramo per ritrovare l’amore perduto

Vi è mai capitato di chiedere qualcosa alla poesia? A Sibilla Aleramo sì: conosciamola meglio e scopriamo la sua invocazione in strofe attraverso i dolci versi di "Tu, poesia"

A volte ci capita, quando leggiamo una poesia, che il senso dell’esistenza sia a portata di mano, oppure, forse più spesso, capita che ci sentiamo parte di qualcosa di più grande e che solo attraverso la poesia riusciamo per un attimo a scorgere l’insieme di cui facciamo parte.

Ma vi è mai capitato di chiedere qualcosa alla poesia? A Sibilla Aleramo sì: conosciamola meglio e vediamo cosa ha chiesto al magico mondo dei versi.

L’invocazione d’amore alla poesia

Quando la persona non basta, quando le parole comuni non bastano più, ad un poeta non resta che chiedere alla poesia stessa di riportare a sé l’amore perduto. Ecco gli struggenti versi della sua poesia, contenuta nella raccolta “Selva d’amore” (Newton Compton, 1980).

Tu, poesia di Sibilla Aleramo

E se fossi tu, poesia,
a farmi vincere?
Dove non valse il pianto,
dove non valse l’umile attesa.
Con la tua fiamma, poesia,
ch’egli in me un poco amava.
Fossi tu a toccarlo, a riportarmelo!
Cose grandi, tante,
nel tempo, insperate,
senza ch’io chiedessi,
m’hai conquistate!
Egli altro non è che un fanciullo stolto,
un povero, malato fanciullo,
puoi tu raggiungerlo?
Luce di stelle è in te.
Fammi vincere!
Da cento e cento notti
invano la mia voce lo chiama,
ma tu carezzalo,
o afferralo, non so,
ridonamelo,
è un povero fanciullo, ma è l’amore,
e tu che sei mai, poesia,
se fra le mie mani non riporti il suo viso?

Sibilla Aleramo e le parole dell’amore

Quante volte avremmo voluto possedere la capacita di far arrivare a chi amavamo o amiamo il nostro sentimento attraverso parole che perfettamente lo incarnassero, parole che come un Mercurio dai piedi alati andassero da lei o lui e, come con Euridice nell’inferi, convincesse il destinatario a tornare da noi.

Forse solo la poesia ha questo potere. Forse sì.

Sibilla Aleramo: una donna libera

Sibilla Aleramo, pseudonimo di Rina Faccio, nasce in Piemonte, ad Alessandria, nel 1876. Prima di quattro figli, studia a Milano, dove il padre gestisce una vetreria, ma non prosegue gli studi oltre le elementari anche se, a discapito del divieto di leggere imposto dal padre sarà un’avida lettrice acquisendo una cultura che la farà entrare nel mondo delle belle lettere divenendone una figura di primo piano. Sibilla è costretta ad accettare un matrimonio combinato ma la sua natura forte e ribelle non le impedirà di divincolarsi dalle catene nuziali e di diventare una fiera portabandiera dell’emancipazione femminile.

Rina, a soli quindici anni, è costretta a prendersi cura della famiglia e a gestire la casa, senza rinunciare al lavoro in fabbrica. Questo delicato equilibrio viene sconvolto da Ulderico Pierangeli, un impiegato del padre, che inizia a corteggiarla insistentemente e, infine, la violenta. Nel 1893, per coprire l’offesa, Rina è costretta a sposarlo. Neppure la nascita del figlio Walter, che lei ama teneramente, riesce a colmare la ferita subita.

La città marchigiana diventa per lei una prigione e il marito, geloso e insensibile alla sua profondità emotiva, si trasforma in un carceriere. Tuttavia, Rina trova una via di fuga nella scrittura, la sua «sotterranea seconda vita», e inizia a collaborare con diverse testate, tra cui la Gazzetta letteraria, L’Indipendente di Trieste e il giornale femminista Vita Moderna, avvicinandosi ai movimenti per l’emancipazione delle donne, che stanno prendendo piede all’alba del XX secolo.

Nel 1899, Rina si trasferisce a Milano con il marito e il figlio. Ulderico, licenziato dalla fabbrica marchigiana, tenta senza successo di avviare un’attività commerciale. Milano, però, offre a Rina l’opportunità di riconnettersi con le sue aspirazioni: dirige L’Italia femminile, un settimanale socialista con collaboratrici come Maria Montessori e Matilde Serao. L’esperienza milanese si interrompe bruscamente con il ritorno a Civitanova, dove il marito prende la direzione della fabbrica che apparteneva al padre di Rina.

La depressione si impadronisce di lei, portandola a pensare al suicidio, come aveva fatto sua madre. A questo punto, Rina prende una decisione radicale: fugge, rifiutando la condiscendenza che ci si aspetterebbe da una donna sposata. Lascia la famiglia e si trasferisce a Roma, separandosi dal figlio che rimane con il padre. Questo sacrificio, per quanto doloroso, è per Rina necessario per rompere la “mostruosa catena” che impone alle donne il sacrificio di sé, ereditata come un triste legato da madre a figlia. Rina dimostra così che per onorare la vita non è necessario rinunciare a se stesse.

Per tutta la vita si fa portavoce, attraverso la sua autobiografia delle istanze di quello che oggi chiameremmo femminismo, ma che era solo ricerca di libertà, a prescindere dal genere sessuale, memorabili a tal proposito le pagine del romanzo “Una Donna”.

Sibilla consacrerà l’intera sua vita all’arte,  facendo combaciare vita e arte come pochi autori suoi contemporanei.

Tante le storie d’amore con i letterati più grandi del tempo, tra cui Quasimodo, Campana, Boine, Caldarelli, storie che dimostrano l’irrequietezza che sempre la caratterizzò e la forza vitale che la pervadeva, oltre al suo fine e spiccato senso artistico.

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