Il figlio (1952) di Pablo Neruda, poesia sul valore della nascita e il potere dell’amore

14 Maggio 2025

Scopri il valore miracoloso della nascita attraverso i versi di "Il figlio", poesia che svela tutto il potere dell'amore assoluto e della passione vera.

Il figlio (1952) di Pablo Neruda, poesia sul valore della nascita e il potere dell'amore

Il figlio di Pablo Neruda è una poesia che celebra il tema della genesi come il momento più alto dell’amore, come l’essenza stessa della creazione. Due persone che si amano sublimano, se possono, tutto il loro amore nella nascita di una creatura che diventa il testimone reale, carnale delle loro emozioni più profonde.

La poesia del poeta cileno evidenzia come la nascita di un figlio corrisponde ad un vero e proprio “miracolo”, l’esperienza più coinvolgente che possa dare voce all’amore , che possa dare evidenza ai sentimenti che due innamorati provano nello stare insieme.

Il figlio è una poesia che fa parte della raccolta I versi del Capitano pubblicata in forma anonima, grazie all’amico Paolo Ricco a Napoli nel 1952. Lo stesso Pablo Neruda svelò il perché dell’anonimato, nella prefazione firmata dallo stesso autore a Isla Negra in Cile nel 1963.

Quello che discussi nel mio interiore, nel frattempo, era se dovevo o no toglierlo dalla sua origine intima: rivelare la sua origine era spogliare l’intimità della sua nascita. Non mi pareva che tale azione fosse leale agli scatti di amore ed ira, al clima sconsolato ed ardente dell’esilio che gli diede la nascita.
D’altra parte penso che tutti i libri debbano essere anonimi. Ma tra il levare a tutti i miei il mio nome o consegnarlo al più misterioso, mi piegai, alla fine, anche se senza voglia.

La raccolta “campana” rappresenta il manifesto poetico dell’agitato amore per Matilde Urrutia, sbocciato a Capri durante la residenza del poeta nell’isola, l’anonimo sotto cui l’opera apparve si dovette al fatto che l’autore non volle ferire pubblicamente la donna alla quale allora era ancora legato.

Leggiamo questa splendida poesia di Pablo Neruda per coglierne il profondo significato.

Il figlio di Pablo Neruda

Ahi figlio, sai, sai
da dove vieni?

Da un lago di gabbiani
bianchi e affamati.

Vicino all’acqua d’inverno
io e lei sollevammo
un rosso fuoco
consumandoci le labbra
baciandoci l’anima,
gettando al fuoco tutto,
bruciandoci la vita.

Così venisti al mondo.

Ma lei per vedermi
e per vederti un giorno
attraversò i mari
ed io per abbracciare
il suo fianco sottile
tutta la terra percorsi,
con guerre e montagne,
con arene e spine.

Così venisti al mondo.

Da tanti luoghi vieni,
dall’acqua e dalla terra,
dal fuoco e dalla neve,
da così lungi cammini
verso noi due,
dall’amore terribile
che ci ha incatenati,
che vogliamo sapere
come sei, che ci dici,
perché tu sai di più
del mondo che li demmo.

Come una gran tempesta
noi scuotemmo
l’albero della vita
fino alle più occulte
fibre delle radici
ed ora appari
cantando nel fogliame,
sul più alto ramo
che con te raggiungemmo.

La vita è il dono più alto dell’amore

Il figlio è una poesia di Pablo Neruda che possiamo considerare una delle sue liriche più intime e potenti, dove la nascita di un bambino diventa il culmine di un amore assoluto, vissuto fino in fondo con il corpo e con l’anima. Non è una poesia sulla genitorialità, ma un vero e proprio inno alla vita che nasce dall’unione di due esseri umani pronti a bruciare se stessi per creare qualcosa di più grande.

Nei versi si mescolano passione, natura, viaggio, sacrificio e mistero, in un racconto epico e simbolico che trasforma il concepimento in un atto sacro e universale. Il figlio non è solo un dono d’amore, ma anche una creatura nuova che racchiude in sé la memoria di un percorso, la forza degli elementi e una sapienza che va oltre i genitori stessi.

Questa poesia, densa di immagini sensuali e cosmiche, merita di essere letta lentamente, verso dopo verso, per coglierne tutta la profondità. Scopriamone insieme il significato.

La nascita deriva dalla più grande passione

Ahi figlio, sai, sai
da dove vieni?

Da un lago di gabbiani
bianchi e affamati.

Vicino all’acqua d’inverno
io e lei sollevammo
un rosso fuoco
consumandoci le labbra
baciandoci l’anima,
gettando al fuoco tutto,
bruciandoci la vita.

Inizia così la poesia di Pablo Neruda,  attraverso immagini potenti: acqua e fuoco si incontrano per dare origine a qualcosa di nuovo, di vivo, di eterno. Il concepimento non è descritto con freddezza biologica, ma come l’epica della passione.

Questa interpretazione del poeta cileno trasferisce alla natalità qualcosa che guarda alla parte più intima dell’amore, alla carnalità desiderata e consumata. È l’essenza del trasporto che genera l’amore nei protagonisti che lo vivono, in cui il senso di colpa non manifesta nessuno dei suoi effetti e in cui la libertà degli umani si esplica con la massima espressione.

L’istinto prende il posto della ragione, il trasporto offre un’immagine più libera del romanticismo. Non c’è borghesia, galateo, freni sociali nelle parole di Pablo Neruda, ma pura liberazione.

La natalità è il viaggio epico dell’amore

Il figlio nasce da una storia d’amore che ha attraversato mari e continenti. La poesia racconta un percorso simile a quello degli antichi miti: lui e lei sono due eroi che devono superare ostacoli, dolore, distanza, per potersi abbracciare. Ed è in quell’abbraccio che la vita prende forma. Ogni nascita, sembra dirci Neruda, è un’impresa, un trionfo sull’impossibile.

“Il figlio” non è solo “creatura” dei genitori, ma anche del mondo, della natura, del tempo. Nasce da forze più grandi dell’uomo: acqua, terra, neve, fuoco. E porta con sé una sapienza ancestrale, misteriosa. Sa qualcosa che i genitori non sanno, qualcosa che va oltre l’esperienza e il linguaggio. In questa intuizione si cela il sacro della paternità: il figlio è una creatura nuova e autonoma.

L’albero della vita e il miracolo dell’esistenza

Pablo Neruda chiude con una delle sue immagini più potenti: l’amore ha scosso l’albero della vita fino alle radici. Il figlio è il canto che ora risuona nel fogliame, sul ramo più alto. Un’immagine di gioia e compimento, ma anche di vertigine: generare la vita è toccare il mistero stesso dell’esistenza. Quel ramo, quel bambino, è il punto più alto che due esseri umani possono raggiungere insieme.

Il figlio non è possesso, ma miracolo che si compie “attraverso” l’amore

Nel poema Il figlio, Neruda non parla semplicemente di paternità, di genitorialità. Non celebra la nascita in senso biologico, né si concentra sulla figura del padre, della madre, dei genitori come centro del mondo del bambino. Al contrario, la nascita del figlio è vista come il culmine di un amore totale, che si è consumato, fuso, attraversato. Un amore che non trattiene, ma offre. Che non imprigiona, ma libera.

Il figlio non è il risultato di un calcolo o di un diritto: è la conseguenza naturale e misteriosa di una grande passione, di un incontro umano e spirituale che ha sfidato la distanza, la guerra, il tempo.

Queste parole sono chiave. La nascita non avviene nel conforto della routine o nel freddo delle convenzioni, ma nel cuore di un sacrificio consapevole: l’amore, per generare vita, si è dovuto bruciare, consumare. Come se fosse necessario rinunciare a una parte di sé per donarne un’altra.

La forza di questa poesia risiede proprio nell’assenza di possesso. Il figlio è desiderato, cercato, sognato — ma non posseduto. Non viene generato per colmare un vuoto o per proiettare un’idea. È l’eco di un amore autentico, e autentico è solo quell’amore che non chiede di essere restituito.

In questo passaggio Neruda si spoglia di ogni illusione genitoriale. Il figlio non appartiene ai genitori. Sa già qualcosa che loro ignorano. Porta in sé un sapere antico, forse ancestrale. Non è un “piccolo noi”, ma un altro da sé. E l’amore vero — quello di cui parla Neruda — sa lasciar andare, riconoscere l’autonomia, la libertà dell’altro.

Dare vita a un figlio è un gesto che scuote le fondamenta dell’esistenza. Non è un atto privato, ma cosmico. E in quel gesto non c’è solo gioia, ma anche vertigine, responsabilità. È come se ogni genitore, nel mettere al mondo un figlio, sfiorasse il cuore profondo della vita, e ne uscisse trasformato.

Ma il figlio è il ramo più alto, quello che si protende oltre. È l’estensione, ma non la ripetizione dei genitori. È canto nuovo, non eco.

Il figlio di Pablo Neruda non è una poesia sull’essere padre, ma sull’essere disposti a creare qualcosa che ci superi. È un inno all’amore libero, che non chiede controllo o restituzione, ma si dà fino in fondo, con la consapevolezza che ciò che nascerà avrà una sua autonomia, una sua voce, una sua strada.

La nascita di un figlio, quindi, secondo Pablo Neruda, è il simbolo più alto della libertà dell’amore: dare tutto, senza aspettarsi nulla in cambio, e restare a guardare — pieni di stupore — la vita che sboccia e canta su un ramo che ci sfiora, ma che non ci appartiene.

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