Chiuso per lutto di Gesualdo Bufalino è una poesia di grande impatto emotivo, che condivide l’amarezza del grande scrittore siciliano che si fa portavoce delle menti e delle anime sicule alla ricerca di una profonda rivoluzione culturale contro tutte le mafie.
Quando Gesualdo Bufalino scrive Chiuso per lutto è il 1992, la Sicilia è una terra ferita a sangue. La strage di Capaci, avvenuta il 23 maggio di quell’anno, in cui persero la vita Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro, fu seguita, il 19 luglio, da un altro tragico attentato, la strage di via D’Amelio, nella quale morirono Paolo Borsellino e cinque agenti della sua scorta: Agostino Catalano, Emanuela Loi (prima donna a far parte di una scorta e anche la prima donna della Polizia di Stato a cadere in servizio), Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.
Proprio per questo, nella poesia Chiuso per lutto, lo scrittore siculo rifiuta di mandare Guerrino “a salvare la Sicilia”: la sua spada di latta e il suo cuore errante non bastano più. L’illusione della fiaba è finita, e al pubblico non resta che affrontare il lutto, il vuoto e il silenzio.
Leggiamo la poesia di Gesualdo Bufalino per coglierne il profondo messaggio.
Chiuso per lutto di Gesualdo Bufalino
Basta così, giù il sipario, non me la sento stasera.
Si chiude. Vi rimborso il biglietto.
Lasciamo Guerrino per un bel po’
a sbrogliarsela con le tenebre
sul ciglione dell’abisso.Gli farà bene vegliare anche lui
in questa Notte d’Ulivi della Sicilia…
Sicilia santa, Sicilia carogna…
Sicilia Giuda, Sicilia Cristo…
Battuta, sputata, inchiodata
palme e piedi a un muro dell’Ucciardone,
fra siepi di sudari in fila
e rose di sangue marcio
e spine di sole e odori,
sull’asfalto, di zolfo e cordite…Isola leonessa, isola iena…
Cosa di carne d’oro settanta volte lebbrosa…No, non verrà Guerrino a salvarla
con la spada di latta
a cavallo di Macchiabruna…Nessun angelo trombettiere
nel mezzogiorno del Giudizio
suonerà per la vostra pasqua,
poveri paladini in borghese,
poveri cadaveri eroi,
di cui non oso pronunziare il nome…Non vi vedremo mai più sorridere
col telefono in una mano
e una sigaretta nell’altra,
spettinati, baffuti, ciarlieri…Nessuna mano solleverà
la pietra dei vostri sepolcri…
Nessuna schioderà
le bare dalle maniglie di bronzo…Forse solo la tua, bambino.
Falcone e Borsellino nel cuore dell’Italia per sempre
Chiuso per lutto è una poesia che tutti dovremmo leggere. Andrebbe insegnata nelle scuole, letta ad alta voce dai ragazzi, condivisa come si condivide una testimonianza di coraggio e dolore, perché custodisce la memoria di Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e di tutti coloro che hanno combattuto la mafia pagando con la vita.
La poesia di Gesualdo Bufalino esprime dolore e sgomento, è un grido contro la vigliaccheria di Cosa Nostra e la sua infamia. Una riflessione civile e morale che scava nelle radici più profonde della Sicilia e dell’Italia intera.
Il Guerrino smarrito nel buio: un simbolo di impotenza
Lo scrittore nel 1992 stava scrivendo Il Guerrin meschino, libro testamentario che riprende fedelmente l’omonimo libro di Andrea da Barberino, il romanzo cavalleresco pubblicato nel 1473. Bufalino però rovescia completamente il finale della storia dell’opera originale, nella quale Guerrino ritrova la propria identità, i genitori, la patria e un futuro da re.
Nella riscrittura di Bufalino l’eroe invecchia senza scopo, prosegue una ricerca vana e solitaria, e finisce per scoprire di essere solo una marionetta, manovrata da un burattinaio invisibile.
Questa immagine diventa emblematica. Il Guerrino di Bufalino è un alter ego dell’autore, una proiezione del suo disincanto e della sua lucida amarezza. L’eroe fallisce, non appartiene a nulla, non è né figlio né padre, non lascia eredità. È il simbolo di un’identità frantumata, di una modernità priva di senso e di speranza.
Il poeta prende in prestito il personaggio del romanzo cavalleresco quattrocentesco di Andrea da Barberino, un cavaliere errante, ingenuo, mosso dal desiderio di conoscere le proprie origini e il senso della vita.
Ma lo scrittore siciliano lo fa entrare magicamente nel teatro tragico della Sicilia straziata dalla mafia. Il coraggio di Guerrino è inutile, la sua “spada di latta” ridicola, impotente di fronte alla violenza bruta della mafia.
Bufalino adotta uno stratagemma da “Opera dei Pupi, fa uscire di scena Guerrino:
Lasciamo Guerrino per un bel po’
a sbrogliarsela con le tenebre
sul ciglione dell’abisso.
La fiaba è finita. Le contraddizioni di un’isola
La realtà è troppo cruda per essere raccontata attraverso archetipi cavallereschi. L’eroe non può più salvare nessuno. Per certi versi gli eroi hanno finito di esistere. Con la morte dei due magistrati è come se le tenebre fossero definitivamente calate sulla Sicilia.
Nella seconda strofa emerge in modo evidente tutto il pessimismo dello scrittore. Il riferimento è duplice, da un lato c’è Guerrino, l’eroe ingenuo e fallimentare evocato all’inizio della poesia, che Bufalino condanna all’impotenza. Dall’altro, c’è un’allusione quasi evangelica, alla notte del Getsemani, ovvero la “Notte d’Ulivi” evoca il momento in cui Cristo veglia prima della crocifissione, tradito e abbandonato dai suoi discepoli.
Gli farà bene vegliare anche lui
in questa Notte d’Ulivi della Sicilia…
Sicilia santa, Sicilia carogna…
Sicilia Giuda, Sicilia Cristo…
La Sicilia diventa un Getsemani collettivo, luogo di attesa e dolore, in cui non c’è redenzione, ma solo la necessità di “vegliare”, cioè di non dimenticare, restare desti nel buio.
Per Gesualdo Bufalino la Sicilia è una terra piena di contraddizioni. L’isola è “santa”, ovvero sinonimo di cultura, sacrificio, resistenza, ma anche “carogna”, cioè complice, corrotta, impastata di morte. Per il comisano la Sicilia è “Cristo”, ovvero vittima innocente, crocifissa dalla storia e allo stesso tempo è “Giuda”, traditrice, venduta per pochi denari.
È un’immagine potentissima, che rifiuta ogni semplificazione, e in cui Falcone e Borsellino diventano martiri di una terra schizofrenica, che li ha amati e traditi insieme.
La crocifissione della Sicilia
Battuta, sputata, inchiodata
palme e piedi a un muro dell’Ucciardone,
Qui la metafora legata alla figura di Cristo si fa visiva e brutale. La Sicilia viene crocifissa su un muro dell’Ucciardone, il carcere simbolo della Palermo mafiosa, di una giustizia intrappolata e assediata.
“Palme e piedi” richiama direttamente l’iconografia della crocifissione. È il corpo della Sicilia stessa a essere martoriato, come emblema collettivo di colpa e martirio.
fra siepi di sudari in fila
e rose di sangue marcio
Un paesaggio funebre e infernale: le siepi non sono vegetazione, ma sudari, teli mortuari che crescono come fossero parte della natura stessa dell’isola. Le rose, solitamente simbolo di bellezza e amore, sono qui intrise di sangue marcio, un’immagine di decadenza, bellezza avvelenata, memoria che puzza di morte.
e spine di sole e odori,
sull’asfalto, di zolfo e cordite…
Il sole non scalda, punge come una spina. La Sicilia non è solo luogo di luce e bellezza, ma di accecamento e dolore. E l’odore dell’asfalto non è quello dell’estate, ma quello dell’esplosivo (cordite) e dell’inferno (zolfo).
Il paesaggio siciliano diventa teatro di violenza, di morte, di guerra, altare sacrificale, un luogo in cui anche la natura partecipa all’eccidio.
In questi versi Bufalino costruisce una vera “Passione” della Sicilia, in cui ogni simbolo sacro, la notte d’ulivi, il Cristo, i sudari, le rose, è rivoltato, sporcato, reso materia tragica.
Non c’è speranza né redenzione, ma una richiesta implicita al lettore: non voltarsi dall’altra parte, non assuefarsi all’orrore. È la poesia come atto di resistenza e memoria. E Guerrino, incapace di agire, può solo vegliare, come ogni uomo cosciente, come ogni siciliano che rifiuta l’oblio.
Isola leonessa, isola iena…
Cosa di carne d’oro settanta volte lebbrosa…No, non verrà Guerrino a salvarla
con la spada di latta
a cavallo di Macchiabruna…
Questi versi suggellano il senso tragico e lucido della poesia. Il poeta sottoliLa Sicilia non può più essere salvata dall’esterno, né dalla politica, né dagli eroi antichi o moderni. È una terra bellissima e maledetta, divorata da se stessa, dove la giustizia si è fatta carne e poi è stata crocifissa.
Bufalino, dietro Guerrino, rinuncia alla possibilità di agire, ma non rinuncia a dire, a raccontare, a vegliare. E nel farlo, lascia a noi lettori l’ultimo compito: ricordare, denunciare, non voltare lo sguardo.
Nessuna resurrezione, solo uomini veri andati al massacro
La strofa successiva rappresenta il culmine sacrale e disperato della poesia Chiuso per lutto.
Nessun angelo trombettiere
nel mezzogiorno del Giudizio
suonerà per la vostra pasqua,
poveri paladini in borghese,
poveri cadaveri eroi,
di cui non oso pronunziare il nome…
Gesualdo Bufalino abbandona ogni forma di speranza ultraterrena e mette in scena la definitiva sconfitta del mito della giustizia. Sono parole che affondano nella tradizione religiosa per capovolgerla, restituendo alla morte di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino tutta la loro tragica verità umana.
Il poeta usa immagini dell’Apocalisse e del Giudizio Universale, “l’angelo che con la tromba” annuncia “la resurrezione dei morti”, per poi negarne la potenza salvifica. Neppure Dio o la storia si occuperanno di loro. È la più alta forma di disperazione, ma anche un monito lucido: non attendiamoci redenzione dall’alto, il compito della memoria è interamente nelle mani dei vivi.
Falcone e Borsellino sono visti come paladini, cioè eroi epici, ma sono “in borghese”, non hanno armature, non hanno spade, non combattono su destrieri. Combattono con il codice, con la parola, con l’intelligenza. Bufalino li restituisce alla loro umanità, lontano da ogni retorica postuma. Non li mitizza: li piange, li affida alla fragilità della memoria.
Il poeta non utilizza i nomi, non vuole cadere nella retorica. Ma, invita non solo a ricordare, ma a rispettare, a non trasformare il lutto in celebrazione vuota. Non c’è più Dio, non c’è giustizia, non c’è resurrezione.
Bufalino lascia nel deserto del dolore, ma lo fa con una potenza poetica assoluta, restituendo ai due magistrati la loro condizione umanissima: quella di uomini che hanno osato sfidare il male, e sono morti da soli, senza che nessuno li suonasse al risveglio.
L’assenza diventa eterna memoria
Eppure, proprio questo silenzio, questo vuoto, chiede oggi di essere colmato da tutte le persone che vogliono omaggiare e celebrare il loro sacrificio e ribellarsi alla sottomissione della mafia.
Non vi vedremo mai più sorridere
col telefono in una mano
e una sigaretta nell’altra,
spettinati, baffuti, ciarlieri…
Questi versi, tra i più toccanti e umani della poesia, rappresentano il ritratto quotidiano e affettuoso di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, restituiti non come eroi astratti, ma come uomini veri, con gesti semplici e abitudini comuni, proprio per questo ancora più indimenticabili.
Gesualdo Bufalino colloca questa strofa dopo la negazione della resurrezione e prima del silenzio finale, come a dire: se non possiamo salvarli, almeno possiamo ricordarli così. Non come statue, ma come uomini.
E forse, proprio per questo, il loro sacrificio diventa ancora più sacro.
Il poeta in questi versi abbandona ogni costruzione simbolica e si affida alla memoria più nuda e vera. Non c’è retorica, solo assenza. Un’assenza che pesa non solo nella storia della giustizia italiana, ma nelle pieghe più intime della vita collettiva. Sorrisi, sigarette, parole. Dettagli minimi, che oggi diventano eterni.
Le future generazioni sono la speranza
Il finale della poesia è di una potenza espressiva devastante, lasciando al lettore un senso di assoluta solitudine, ma anche un barlume di speranza fragile.
Nessuna mano solleverà
la pietra dei vostri sepolcri…
Nessuna schioderà
le bare dalle maniglie di bronzo…Forse solo la tua, bambino.
Questa chiusa suggerisce che, se lo Stato, la Chiesa, la Storia non hanno rialzato quei sepolcri, abbiamo noi, oggi, il compito di vegliare. Il bambino non è solo metafora: è promessa di rinascita, testamento di una civiltà che non dimentica, che cresce nel ricordo e nell’azione.
Bufalino, col suo Guerrino alle spalle, ci affida un lascito morale: non spegnere la memoria, non abbandonare il lutto, perché esso è ferita e guardiana della democrazia.
Chi è Gesualdo Bufalino
Gesualdo Bufalino nasce a Comiso il 15 novembre del 1920. Sin da piccolo scopre l’amore per la lettura e la poesia, attingendo dalla libreria del padre, un fabbro con la passione per i libri. Il giovane Gesualdo sfrutta ogni mezzo per accaparrarsi quotidiani e nuove letture da intraprendere. Studia al liceo classico, poi si iscrive alla facoltà di Lettere di Catania.
Nel corso della Seconda Guerra Mondiale, gli studi del giovane vengono interrotti dalla chiamata alle armi , che porta Gesualdo Bufalino a combattere in Friuli. Catturato dai tedeschi poco dopo l’armistizio, riesce a fuggire e si rifugia in Emilia Romagna, dove si mantiene insegnando. Ben presto, però, Bufalino si ammala di tisi, ed è costretto a vivere in un sanatorio per diverso tempo. Tornato in Sicilia, prosegue gli studi a Palermo, dove si laurea con una tesi sull’archeologia.
È l’esperienza del sanatorio che fa maturare in Gesualdo Bufalino il germe della scrittura. Nascerà nel 1981 la “Diceria dell’untore”, l’opera prima dell’autore comisano che lo consacrerà con il Premio Campiello.
Da questo momento, lo scrittore e poeta non cesserà più di scrivere, con lo stile ricercato, che sembra quasi provenire da tempi remoti, che lo contraddistingue. Con “Le menzogne della notte” otterrà il Premio Strega nel 1988. La grande fama non modifica le abitudini dell’autore, che condurrà per tutta la vita un’esistenza modesta e riservata.
Gesualdo Bufalino ci lascia il 14 giugno del 1996, a causa di un incidente stradale avvenuto fra Comiso e Vittoria.