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Arthur Rimbaud, le poesie più belle

Arthur Rimbaud è stato un poeta maledetto e innovatore della poesia moderna. Ecco le sue poesie più belle

Poeta maledetto per eccellenza, Arthur Rimbaud fu uno dei più grandi innovatori della poesia moderna. Nacque a Charleville-Mézières (Francia), il 20 ottobre 1854 in una tipica famiglia borghese.

Arthur Rimbaud iniziò a scrivere giovanissimo, a 15 anni, e subito intuì la necessità di liberarsi dalle convenzioni letterarie e metriche che vincolavano l’espressione poetica.

Inquieto e vagabondo, Rimbaud riteneva che il poeta dovesse necessariamente farsi Veggente, ovvero discendere negli abissi della propria interiorità così da poterli trasporre in poesia.

A questo fine, occorreva sperimentare tutto, condurre un’esistenza dissoluta, non porsi alcun limite.

Arthur Rimbaud e il poeta veggente

Così scriveva Rimbaud all’amico Paul Demeny

Il primo studio dell’uomo che vuole essere poeta è la conoscenza di se stesso, intera. Egli cerca la sua anima, la scruta, la mette alla prova, la impara […] Dico che bisogna essere veggente, farsi veggente. Il Poeta si fa veggente mediante un lungo, immenso e ragionato regolamento di tutti i sensi.

Tutte le forme d’amore, di sofferenza, di follia. Egli cerca se stesso, esaurisce in sé tutti i veleni, per conservarne solo le quintessenze. Egli arriva all’ignoto e anche se finisse col perdere la comprensione delle sue visioni, le ha viste».

Rimbaud scrisse moltissimo, ma per breve tempo: solo dai 15 ai 19 anni.

Poi abbandonò definitivamente la letteratura, ma continuò a viaggiare e a condurre l’esistenza sregolata che nel tempo gli valse la nomea di “poeta maledetto”.

Morì a 37 anni, il 10 novembre 1891, a causa di una malattia che lo condusse prima alla paralisi e successivamente alla morte.

Arthur Rimbaud, le poesie più belle

Rileggiamo le poesie più belle del poeta maledetto Arthur Rimbaud:

Testa di fauno

Tra le foglie, verde scrigno macchiato d’oro,
tra le incerte foglie fiorite
di splendidi fiori dove dorme un bacio,
vivo, strappando il lieve ricamo,

un fauno spaurito mostra i suoi occhi
e morde i fiori rossi con denti bianchissimi.
Scuro e sanguigno come vino invecchiato
il suo labbro esplode in risa tra le fronde.

E quando s’è dileguato – come uno scoiattolo –
il riso suo ancor trema tra le foglie;
lo vedi spaventarsi d’un fringuello
quel bacio aureo del bosco, e rannicchiarsi.

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La stella ha pianto rosa

La stella ha pianto rosa al cuore delle sue orecchie,
L’infinito è rotolato bianco dalla tua nuca alle reni
Il mare è imperlato rosso alle tue mamme vermiglie
E l’Uomo ha sanguinato nero al tuo fianco sovrano.

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L’addormentato nella valle (1870)

È una gola di verzura dove un fiume canta
impigliando follemente alle erbe stracci
d’argento: dove il sole, dalla fiera montagna
risplende: è una piccola valle che spumeggia di raggi.

Un giovane soldato, bocca aperta, testa nuda,
e la nuca bagnata nel fresco crescione azzurro,
dorme; è disteso nell’erba, sotto la nuvola,
pallido nel suo verde letto dove piove la luce.

I piedi tra i gladioli, dorme. Sorridente come
sorriderebbe un bimbo malato, fa un sonno.
O Natura, cullalo tiepidamente: ha freddo.

I profumi non fanno più fremere la sua narice;
dorme nel sole, la mano sul suo petto
tranquillo. Ha due rosse ferite sul fianco destro.

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Sognato per l’inverno (1870)

D’inverno, ce ne andremo in un piccolo vagone rosa
con i cuscini blu.
Staremo bene. Un nido di pazzi baci riposa
in qualche soffice angolo.

Tu chiuderai gli occhi, per non vedere, dai vetri
ghignare le ombre delle sere,
queste arcigne mostruosità, plebaglie
di neri démoni e neri lupi.

Poi sentirai la guancia scalfita…
Un piccolo bacio, come un ragno folle,
ti correrà per il collo…

E tu mi dirai: «Cerca!» inclinando la testa,
e perderemo tempo a cercare quella bestia
– che così tanto viaggia…

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Il Male

Mentre gli sputi rossi della mitraglia
sibilano senza posa nel cielo blu infinito;
scarlatti o verdi, accanto al re che li schernisce
crollano i battaglioni in massa in mezzo al fuoco,

mentre un’orrenda follia, una poltiglia
fumante fa di centomila uomini,
– Poveri morti! Nell’estate, nell’erba e nella gioia
tua, o natura! tu che santamente li creasti!

– C’è un dio che ride sulle tovaglie di damasco
degli altari, nell’incenso e nei grandi calici d’oro,
che s’addormenta cullato dagli Osanna,

– e si risveglia, quando madri chine
sulla loro angoscia, piangendo sotto i vecchi cappelli neri
gli danno un soldo legato nel loro fazzoletto.

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Sensazione

Le sere azzurre d’estate, andrò per i sentieri,
Punzecchiato dal grano, a calpestare erba fina:
Trasognato, ne sentirò la freschezza ai piedi.
Lascerò che il vento mi bagni il capo nudo.

Non parlerò, non penserò a niente:
Ma l’amore infinito mi salirà nell’anima,
E andrò lontano, molto lontano, come uno zingaro,
Nella Natura, – felice come con una donna.

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Il Cuore Rubato

Il mio triste cuore sbava a poppa,
il mio cuore coperto di trinciato:
su di lui sputano schizzi di zuppa,
mio triste cuore che sbava a poppa:
sotto i turpi lazzi della truppa
che scoppia in un riso generale,
il mio triste cuore sbava a poppa,
mio triste cuore coperto di trinciato!

Itifallici e soldateschi,
i loro insulti l’hanno depravato!
E nel vespero dipingono affreschi
Itifallici e soldateschi.
O flutti abracadabranteschi
prendete il mio cuore, che sia salvato:
Itifallici e soldateschi,
i loro insulti l’hanno depravato!

Quando avranno consumato le loro cicche
come agire, o cuore defraudato?
Ci saranno bacchici rutti
quando avranno consumato quelle cicche;
io avrò conati di vomito
se il mio triste cuore è avvilito;
Quando avranno consumato le loro cicche,
come agire, o cuore defraudato?

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Vocali

A nera, E bianca, I rossa, U verde, O blu: vocali,
io dirò un giorno le vostre nascite latenti:
A, nero corsetto villoso delle mosche lucenti
che ronzano intorno a fetori crudeli,

golfi d’ombra; E, candori di vapori e di tende,
lance di ghiacciai superbi, re bianchi, brividi di umbelle;
I, porpora, sangue sputato, riso di labbra belle
nella collera o nelle ebbrezze penitenti;

U, cicli, vibrazioni divine dei verdi mari,
pace dei pascoli seminati di animali, pace di rughe
che l’alchimia imprime nelle ampie fronti studiose;

O, suprema Tuba piena di stridori strani,
silenzi solcati dai Mondi e dagli Angeli:
– O l’Omega, raggio violetto dei Suoi Occhi!

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Ofelia

I

Sull’onda calma e nera dove dormono le stelle
La bianca Ofelia ondeggia come un grande giglio,
Ondeggia molto piano, stesa nei suoi lunghi veli…
– Si sentono dai boschi lontani grida di caccia.

Sono più di mille anni che la triste Ofelia
Passa, bianco fantasma, sul lungo fiume nero;
Sono più di mille anni che la sua dolce follia
Mormora una romanza alla brezza della sera.

Il vento le bacia il seno e distende a corolla
I suoi grandi veli, teneramente cullati dalle acque;
I salici fruscianti piangono sulla sua spalla,
Sulla sua grande fronte sognante s’inclinano i fuscelli.

Le ninfee sfiorate le sospirano attorno;
A volte lei risveglia, in un ontano che dorme,
Un nido da cui sfugge un piccolo fremer d’ali:
– Un canto misterioso scende dagli astri d’oro.

II

O pallida Ofelia! bella come la neve!
Tu moristi bambina, rapita da un fiume!
– I venti piombati dai grandi monti di Norvegia
Ti avevano parlato dell’aspra libertà;

E un soffio, torcendoti la gran capigliatura,
Al tuo animo sognante portava strani fruscii;
Il tuo cuore ascoltava il canto della Natura
Nei gemiti dell’albero e nei sospiri della notte;

L’urlo dei mari folli, immenso rantolo,
Frantumava il tuo seno fanciullo, troppo dolce e umano;
E un mattino d’aprile, un bel cavaliere pallido,
Un povero pazzo, si sedette muto ai tuoi ginocchi.

Cielo! Amore! Libertà! Quale sogno, o povera Folle!
Ti scioglievi per lui come la neve al fuoco:
Le tue grandi visioni ti strozzavan le parole
– E il terribile Infinito sconvolse il tuo sguardo azzurro!

III

– E il Poeta dice che ai raggi delle stelle
Vieni a cercare, la notte, i fiori che cogliesti,
E che ha visto sull’acqua, stesa nei suoi lunghi veli,
La bianca Ofelia come un gran giglio ondeggiare

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Preghiera della sera

Vivo seduto, come un angelo alle mani
Di un barbiere, impugnando un ruvido bicchiere,
Collo e ipogastro curvi, una “Gambier” tra i denti,
Sotto i cieli rigonfi di vele trasparenti.

Come caldi escrementi di un vecchio colombaio,
Mille sogni procurano dolci bruciature;
Poi d’improvviso il cuore triste è come un alburno,
Che macchia l’oro giovane e scuro delle linfe.

E poi, quando ho ingoiato i miei sogni con cura,
Io mi volto, bevuti più di trenta bicchieri,
E mi concentro per mollar l’acre bisogno:

Dolce come il Signore del cedro e degli issòpi,
Io piscio verso i cieli bruni, in alto e lontano,
E con l’approvazione degli enormi eliotropi.

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La maliziosa

Nella sala da pranzo bruna, profumata
D’un sentore di frutta e di vernice, prendo
Comodamente un piatto di non so qual pietanza
Belga, e mi lascio andare dentro alla sedia immensa.

Mangiando, lieto e calmo, ascolto l’orologio.
Si apre con un colpo di vento la cucina,
– Ed ecco venire, chissà perché, la serva,
Spettinata con arte, scialle sfatto,

E con ditino incerto sfiorandosi una guancia,
Velluto biancorosa di pesca, e atteggiando
A smorfia quella sua bocca infantile,

Per meglio accomodarmi dispone intorno i piatti;
– E poi, così, – ma si, voleva un bacio,-
Pian piano: “Senti, dice, ho una freddo alla guancia…”

Charleroi, ottobre 1870

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L’uomo giusto

Il Giusto stava eretto sui solidi fianchi:
Un raggio gl’indorava la spalla; cominciai
A sudare: “Vuoi vedere risplendere i bolidi?
E ascoltare, in piedi , come ronza il flusso
Degli astri lattei, e gli sciami d’asteroidi?

“La tua fronte è spiata dalle farse notturne,
O Giusto! Devi trovarti un tetto. Di’ la tua preghiera,
La bocca nel tuo lenzuolo dolcemente espiato;
E se qualche sperduto busserà al tuo ostiario,
Fratello, vai altrove, io sono storpio!”

E il Giusto restava in piedi, nello spavento
Bluastro d’erba dopo la morte del sole:
“Dunque, vorresti vendere le tue ginocchiere,
O Vecchio? Pellegrino sacro! Bardo d’Armor!
Piagnone degli Ulivi! Mano che la pietà inguanta!

“Barba della famiglia e pugno della città,
Credente molto dolce: o cuore caduto nei calici,
Maestà e virtù, amore e cecità,
Giusto! Più sciocco e disgustoso di una cagna!
Io sono colui che soffre e che si è ribellato!

“E mi fa piangere sul mio ventre, o stupido,
E ridere, la famosa speranza del tuo perdono!
Sono maledetto, lo sai! Sono ubriaco, pazzo, livido,
Quello che vuoi! Ma vatti a nascondere, va’ dunque,
Giusto! Non voglio niente dal tuo torpido cervello.

“Insomma, tu sei il Giusto, il Giusto! Basta!
È vero che la tua tenerezza e la tua ragione serena
Sbuffano nella notte come cetacei!
Che ti fai proscrivere, e snoccioli lamenti
Su spaventose maniglie fracassate!

“E saresti tu l’occhio di Dio! Vigliacco! Anche se le piante
Fredde dei piedi divini passassero sul mio collo,
Tu saresti un vigliacco! Oh fronte che brulica di pidocchi!
Socrate e Gesù, Santi e Giusti, che schifo!
Onore al sommo Maledetto nelle notti sanguinanti!”

Questo avevo urlato sulla terra, e la notte
Calma e bianca occupava i cieli durante la mia febbre.
Rialzai la fronte: il fantasma era fuggito,
Portandosi via l’ironia atroce del mio labbro…
– Venti notturni, venite dal Maledetto! Parlategli!

Mentre, silenzioso sotto i pilastri
D’azzurro, prolungando le comete e i nodi
Dell’universo, enorme rivolgimento senza disastri,
L’ordine, che eterno veglia, rema nei cieli luminosi,
E dalla sua draga in fiamme lascia filare gli astri!

Ah! che se ne vada, lui, la gola incravattata
Di vergogna, ruminando sempre la mia noia,
Dolce come lo zucchero sui denti cariati.
– Simile alla cagna che dopo l’assalto dei fieri maschietti
Si lecca il fianco da cui pende un budello strappato.

Proclami pure la sua sudicia carità e il progresso…
– Odio tutti quegli occhi da cinesi panciuti,
E chi canta: nanna, come un mucchio di bambini
Vicini alla morte, dolci idioti dalle improvvise canzoni:
O giusti, noi cacheremo nei vostri ventri d’argilla!

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Venere Anadiomede

Come da un verde feretro di latta, una testa
Dai bruni capelli esageratamente impomatati
Da una vecchia tinozza emerge, lenta e ottusa,
Con qualche deficienza piuttosto malmessa;

E il collo grasso e grigio, le scapole larghe
Sporgenti; il dorso corto che rientra ed esce;
E i fianchi tondi che sembrano spiccar il volo;
Il grasso sotto la pelle appare in piatte falde;

La schiena è un po’ rossa; e tutto ha un odore
Stranamente orrendo; si notano soprattutto
Cose singolari da osservare con la lente…

Le reni hanno incise due parole: Clara Venus;
– E tutto questo corpo si muove e porge l’ampia groppa
Schifosamente bella per un’ulcera all’ano.

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La credenza

È un’ampia credenza scolpita; la quercia scura,
Molto antica, ha preso l’aspetto bonario dei vecchi;
La credenza è aperta, e versa nella sua ombra
Come un fiotto di vecchio vino, profumi allettanti;

Tutta piena, è un miscuglio di antiche anticaglie,
Panni gialli e odorosi, cenci
Di donne e bambini, merletti avvizziti,
Scialli da nonna con grifi dipinti;

– Lì potresti trovare medaglioni, ciocche
Di capelli bianchi o biondi, i ritratti, i fiori secchi
Il cui profumo si mescola a quello della frutta.

– Oh credenza d’altri tempi, tu ne sai di storie,
E vorresti raccontare i tuoi racconti, e fai rumore
Quando lentamente si aprono, le tue grandi porte nere.

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Le suore di carità

Il giovane dall’occhio brillante, la pelle bruna,
Il bel corpo ventenne che dovrebbe andar nudo
E che, la fronte cinta di rame, avrebbe adorato
Sotto la luna un Genio ignoto in Persia,

Impetuoso con dolcezze verginali
E nere, fiero delle sue prime testardaggini,
Simili ai giovani mari, pianti di notti estive,
Che si ravvolgono su letti di diamanti;

Il giovane, davanti alle brutture di questo mondo,
Trasale nel cuore ampiamente irritato,
E pieno delle ferita profonda ed eterna,
Comincia a desiderare la sua suora di carità.

Ma, o Donna, mucchio di viscere, dolce pietà,
Tu non sei mai la suora di carità, mai,
Né sguardo nero, né ventre ove dorme un’ombra rossa,
Né dita lievi, né seno splendidamente modellato.

Cieca non risvegliata dalle pupille immense,
Tutto il nostro abbracciare è solo una domanda:
Sei tu che ti aggrappi a noi, portatrice di mammelle,
Siamo noi a cullarti, grave e incantevole Passione.

I tuoi odi, i tuoi torpori fissi, i tuoi mancamenti,
E le brutalità un tempo sofferte,
Tu ci rendi tutto, o Notte, e senza cattiveria,
Come sangue in eccesso versato ogni mese.

– Quando la donna, portata un istante, lo spaventa,
Amore, richiamo di vita e canto d’azione,
La Musa verde e l’ardente Giustizia vengono
A dilaniarlo con la loro augusta ossessione.

Ah! sempre assestato di splendori e di calma,
Abbandonato dalle due Sorelle implacabili, gemendo
Con tenerezza per la scienza dalle alme braccia,
Offre alla natura in fiore la sua fronte sanguinante.

Ma la nera alchimia e gli studi santi
Ripugnano al ferito, cupo sapiente d’orgoglio;
Lui sente camminare su di sé atroci solitudini.
Allora, sempre bello, senza paura della bara,

Creda alle grandi mete, Sogni o Vagabondaggi
Immensi, attraverso le notti di Verità,
E ti chiami nella sua anima e nelle membra malate,
O Morte misteriosa, o suora di carità.

Giugno 1871

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