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I 10 errori linguistici che si commettono con maggior frequenza

A volte è solo un refuso, oppure un piccolo errore di battitura; altre volte si commettono dei veri e propri errori linguistici. I più comuni li ha individuati e risolti Roscia all'interno del libro "Errorario".

Esistono errori che la maggior parte delle persone commettono quando parlano, scrivono un testo, un messaggio o una lettera. A volte è solo un refuso, oppure un piccolo errore di battitura, può succedere.

Ma ci sono errori linguistici fatti “con inconsapevolezza”, dovuti ad una mancanza di cognizione o di valutazione. molti di loro non passano inosservati.

“Errorario” di Massimo Roscia

Il seguente elenco di errori linguistici, con relativo “spiegone” è tratto dal libro “Errorario” di Massimo Roscia, un volume che raccoglie, in rigoroso ordine alfabetico, i più frequenti errori grammaticali, ortografici, lessicali e sintattici, i dubbi, i malapropismi, i tormentoni linguistici, le parole e le frasi sfibrate dall’uso eccessivo.

Tra curiosità, aneddoti e motti di spirito, il libro di Massimo Roscia è un viaggio  alla ricerca del significato autentico di alcuni vocaboli, della loro etimologia, delle origini, della storia, del valore stilistico e dell’uso corretto.

10 errori linguistici più frequenti

Ecco, di seguito, un elenco dei più frequenti errori linguistici, individuati e analizzati da Roscia all’interno del libro “Errorario”. Ringraziamo la casa editrice Rai Libri per averci consentito di prendere degli estratti dal libro.

Aldilà

Se vi riferite all’altro mondo, alla vita ultraterrena, all’oltretomba o al regno dei morti, fate i dovuti scongiuri e continuate pure a scrivere aldilà tutto attaccato, ma se volete usare la locuzione avverbiale o preposizionale per indicare “dall’altra parte”, “di là da un luogo”, allora scrivete al di là.

C’è la faremo

Fin quando si trattava di urlarlo dai balconi o di scriverlo nell’hashtag #celafaremo (parente povero di #andratuttobene e #iorestoacasa), erano tutti bravi; del resto nel parlato e negli hashtag non ci sono apostrofi e accenti.

Ma come si scrive questa beneaugurante frase che, insieme ai famigerati DPCM, ci ha tenuto compagnia per l’intera pandemia? In un solo modo: ce la faremo. Due piccoli pronomi (ce e la) e la prima persona plurale del futuro semplice del verbo fare.

Tutto qua. Quindi gettate via tutto il resto: ce l’ha faremo, c’è la faremo, c’è l’ha faremo, cela faremo et similia.

Daccordo

Siamo d’accordo? D’accordo su cosa? Sul fatto che d’accordo si scrive con l’apostrofo. La preposizione semplice di, che precede il sostantivo accordo, è soggetta a elisione. La forma univerbata daccordo è, quindi, da considerarsi errata.

Come fare a ricordarlo? Seguite i miei consigli e andremo d’amore (e non damore, perché è un identico caso di elisione) e d’accordo.

Ecco un altro tra i più frequenti errori linguistici. Do, prima persona singolare dell’indicativo presente del verbo dare non si accenta. Mai. Perché? Perché l’accento, in questo caso, è superfluo come un vecchio soprammobile che sta lì solo a prendere polvere.

All’interno di un dato contesto, è infatti impossibile confondere la forma verbale con la nota musicale do. Se fosse vero il contrario, allora
dovremmo accentare anche il re, il mi, il fa e le altre note per distinguerle dagli omofoni.

In vano

«Non nominare il nome di Dio invano». Anche i non credenti avranno sentito enunciare dozzine di volte il secondo comandamento. Il famoso precetto biblico ci offre il pretesto per fare chiarezza sulla corretta grafia di questo avverbio che viene dal latino vanus (“vano”, “vuoto”, “inutile”) e che, come sappiamo, significa “inutilmente”, “senza effetto”, “senza alcun vantaggio”.

La forma preferibile e più diffusa nell’italiano contemporaneo è senza dubbio invano. «E dove siete, o fiori / strani, o profumi nuovi? / Noi vi cercammo in vano». Lasciate a Gabriele D’Annunzio l’altra forma.

Interpetrare

Ecco un altro tra i più comuni errori linguistici. Nel settimo episodio della saga cinematografica Mission: Impossible Tom Cruise è tornato a interpetr… intrerpet… vestire i panni dell’agente segreto Ethan Hunt. A volte anch’io mi impappino. In ogni caso, la variante popolare interpetrare, per quanto più facile da pronunciare (grazie alla metatesi della R), non va bene.

L’unica forma corretta è interpretare. Basta solo scandire le sillabe, lentamente. In fondo non è una… missione impossibile.

Incinta

Prima di tutto, incinta si scrive attaccato e non in cinta. Detto ciò, bisogna chiarire, una volta per tutte, che incinta è un normalissimo aggettivo e, in quanto tale, deve – e sottolineo deve – concordare in genere e numero con il nome a cui si riferisce.

Una donna in stato di gravidanza è incinta, due o più donne in stato di gravidanza sono incinte. Non ne posso più di sentire “donne incinta”. Basta! È come se dicessimo “donne bella”, “donne brava”, “donne educata”.

Ogniuno

«Ognuno odia la I». Basta questa semplice frase per ricordarsi che il pronome indefinito ognuno si scrive così.

È vero che ognuno deriva da ogni unito a uno ma la forma ogniuno è arcaica e superata (un tempo si scriveva anche ogni uno, ogn’uno e, nella variante tronca, ognun).  Ognuno di voi è libero di credermi o no.

Propio

Ecco un altro tra gli errori linguistici più frequenti. «Questa sciarpa ti sta propio bene». «È stato propio bravo». «Si è scavato la fossa con le propie mani». «Ognuno deve ragionare con la propia testa». «Non ti considero propio». «Propio così».

In italiano, questa parola che usiamo molto di frequente come aggettivo (con i significati di “tipico”, “caratteristico”, “appropriato” e, soprattutto, “che appartiene a qualcuno”) o come avverbio (“veramente”, “appunto” e, con valore rafforzativo, “davvero”) si scrive proprio.

Perché? Non c’è una vera regola; la forma ricalca semplicemente quella originaria della parola latina proprium. Propio – che in dialetto romanesco può diventare addirittura popo – è una variante popolare da evitare tassativamente nei contesti formali o nello scritto.

Lo stesso vale per appropriarsi (e non appropiarsi) e appropriato (e non appropiato). Basta davvero poco per esprimersi in modo appropriato.

Se’

Ecco uno degli errori linguistici che merita maggiore approfondimento. La famigliola dei se è davvero vivace e numerosa. A prima vista i fratellini se, sé e s’è sono molto simili tra loro, eppure quei piccoli segni grafici fanno la differenza.

Il più delle volte se, senza accento, è una congiunzione con valore ipotetico che corrisponde a “ammesso che”, “posto che”, e introduce proposizioni che esprimono una condizione (“Se continuerà a piovere così forte, le strade presto si allagheranno”; “Se avessi i soldi, comprerei una macchina nuova”; “Non l’avrei invitato, se lo avessi saputo prima”) o una congiunzione dubitativa che introduce, appunto, frasi dubitative o interrogative indirette (“Non so se lo rifarei”; “Mi chiedo se tu abbia davvero capito”).

Altre volte se rappresenta, invece, la forma debole della declinazione pronominale ed è usato al posto di si (indefinito o riflessivo, come complemento oggetto o complemento di termine) quando è seguito da lo, la, le, li, ne (“Se lo sentono ripetere in continuazione”; “Un’altra come me se la sogna”; “Se le sono date di santa ragione”; “Se li è mangiati tutti”; “Se ne è andato senza nemmeno salutarmi”).

con l’accento – accento acuto, mi raccomando – è, invece, la forma forte della declinazione del pronome riflessivo di terza persona e si usa solo quando è riferito al soggetto, maschile o femminile, singolare o plurale (“Dario è uno che pensa solo a sé”), o nelle frasi con un verbo all’infinito e può comparire in diverse locuzioni dal significato particolare (“Dario è uscito fuori di sé”; “Dario preferisce fare da sé”; “Dario ha iniziato a rimuginare fra sé e sé”). Resta inteso che l’uso di questo pronome riflessivo non è una prerogativa esclusiva di quelli che si chiamano Dario.

S’è, con apostrofo e accento, nasce dalla semplice elisione di si è (si, forma atona del pronome riflessivo di terza persona, singolare e plurale, ed è, terza persona singolare dell’indicativo presente del verbo essere) e serve alla coniugazione dei verbi riflessivi e dei verbi pronominali (“Fino a ieri non s’è visto nessuno”; “Il vaso è caduto a terra e s’è rotto”).

Infine, , con l’accento grave, non esiste, così come non esiste se’ con l’apostrofo. Il resto… va da sé.

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