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Vittorio Alfieri, le poesie più belle

In occasione dell'anniversario della morte dello scrittore italiano, vi proponiamo alcune delle sue poesie più belle

MILANO – Nasceva ad Asti il 16 gennaio 1749 Vittorio Alfieri, uno dei più importanti scrittori del Settecento italiano. I sentimenti di libertà e d’indipendenza, l’esaltazione della personalità, la certezza della risurrezione della nazione italiana espressi nella sua opera, fecero di lui uno dei più efficaci educatori delle generazioni del Risorgimento. Il poeta scomparve l’8 ottobre del 1803. Lo ricordiamo attraverso le sue poesie più belle.

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Sonetto XX

S’io t’amo? Oh donna! Io nol dirìa volendo.
Voce esprimer può mai, quanta m’inspiri
dolcezza al cor, quando pietosa giri
vèr me tue luci ove alti sensi apprendo?

S’io t’amo? E il chiedi? E nol dich’io tacendo?
E non tel dicon miei lunghi sospiri,
e l’alma afflitta mia, ché par che spiri
mentre dal tuo bel ciglio immobil pendo?

E non tel dice ad ogni istante il pianto
cui di speranza e di temenza misto,
versare a un tempo e raffrenare io bramo?

Tutto tel dice in me: mia lingua intanto
sola tel tace; perché il cor s’è avvisto
ch’a quel ch’ei sente, è un nulla il dirti: Io t’amo.

 

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Sonetto LXXXVII

Mentr’io più mi allontano ognor da quella,
ch’ora i suoi dì strascina al Tebro in riva,
sol mio diletto è il far sempre più viva
mia doglia, e il viver tutto immerso in ella.

Spesso, mia lingua in flebil suon l’appella;
e l’alma voce, che già il cor mi apriva,
par mi risponda, così addentro arriva
la rimembranza pur di sua favella.

Pietade e pianto nel mortal mio esiglio
sono i miei soli duo fidi compagni;
l’una il cor mi governa, e l’altro il ciglio.

Né v’ha infelice che con me si lagni,
ch’io di soccorso, lagrime, o consiglio,
pietosamente lui non accompagni.

 

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Sonetto LXXXIX

Là dove muta solitaria dura
piacque al gran Bruno instituir la vita,
a passo lento, per irta salita,
mesto vo; la mestizia è in me natura.

Ma vi si aggiunge un’amorosa cura,
che mi tien l’alma in pianto seppellita,
sì che non trovo io mai spiaggia romita
quanto il vorrebbe la mia mente oscura.

Pur questi orridi massi, e queste nere
selve, e i lor cupi abissi, e le sonanti
acque or mi fan con più sapor dolere.

Non d’intender tai gioie ogni uom si vanti:
le mie angosce sol creder potran vere
gli ardenti vati, e gl’infelici amanti.

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Sonetto CVIII

Le pene mie lunghissime son tante,
ch’io non potria giammai dirtele appieno.
D’atri pensieri irrequïeti pieno,
neppure io ‘l so, dove fermar mie piante.

Misera vita strascìno ed errante;
dov’io non son, quello il miglior terreno
parmi; e quel ch’io non spiro, aere sereno
sol chiamo; e il bene ognor mi caccio innante.

S’anco incontro un piacer semplice e puro,
un lieto colle, un praticello, un fonte,
dolor ne traggo e pensamento oscuro.

Meco non sei: tutte mie angosce conte
son da quest’una; ed a narrarti il duro
mio stato, sol mie lagrime son pronte.

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Sonetto CXXXV

Solo, fra i mesti miei pensieri, in riva
al mar là dove il Tosco fiume ha foce,
con Fido il mio destrier pian pian men giva;
e muggìan l’onde irate in suon feroce.

Quell’ermo lido, e il gran fragor mi empiva
il cuor (cui fiamma inestinguibil cuoce)
d’alta malinconia; ma grata, e priva
di quel suo pianger, che pur tanto nuoce.

Dolce oblio di mie pene e di me stesso
nella pacata fantasia piovea;
e senza affanno sospirava io spesso:

quella, ch’io sempre bramo, anco parea
cavalcando venirne a me dappresso…
Nullo error mai felice al par mi fea.

 

 

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