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“Venezia” di Anna Zennaro, visuale mossa e svariante della città marinara

Ognuno di noi ha serbato un ricordo, una fascinazione di Venezia, piccola e immensa città-palcoscenico, immergendola nelle torbide acque della curiosità o dell’attesa; situandovi nel lontanare o sfumare di quel ricordo la radice di una fatuità o malinconia che continua ad albergare in noi. Per un’ora o l’istante di un incontro, abbiamo tutti creduto di abitare Venezia come nobili attestati nei saloni e le araldiche di un castello splendido in rovina. Il libro di Pasquale di Palmo (“Venezia“, Unicopli, 2017), studioso e poeta, con la sua trama esile e divagante in apparenza, ma ricchissima nella libertà e nel rigore della composizione, ci offre una visuale mossa e svariante di Venezia restituendone dietro l’aspetto ingannevole della trasognatezza le più segrete stratificazioni, i mille volti di una allegoria sfuggente di acque e pietre, che una politica accorta soltanto al tornaconto di una sconsiderata promozione del turismo di massa ha appiattito alla dimensione di una bellezza fascinosa ricostruita in laboratorio.

Evitando intonazioni retoriche e programmatiche, pur cambiando angolazione e ritmo narrativo a seconda degli argomenti, Di Palmo fa di Venezia l’infinita “soglia” (si intenda nell’ accezione di Genette) di una visione ininterrotta (sorta di monumento funerario di una civiltà putrescente e pur tuttavia segretamente affacciata sull’attesa di un nuovo giorno) fissando nella scrittura una serie di impressioni, sensazioni cromatiche e plastiche, personaggi e vicende ordinarie e straordinarie viste attraverso la lastra fotografica di una memoria involontaria tanto più esatta quanto più ingannevole. Ciò che colpisce della Venezia di Di Palmo è la qualità della luce che nelle sue vibrazioni, lacerazioni ed espansioni, sedimentandosi nelle cose come nei pensieri conferisce una spazialità materica a una materia equorea e fluida, e quindi fatalmente destinata a svanire nel momento in cui appare. La luce è essa stessa memoria; e la memoria è forma, dunque durata. ” Il ricordo è un ricordo della luce, una cascata luminosa che spiove sul mio risveglio di bambino in un letto matrimoniale.

Una luce che non era come tutte le altre, ma aveva qualcosa di indefinibile e celestiale. (..)Non esisteva più niente, soltanto quella luce inverosimile, invadente, che in sè accorpava tutti i contorni della stanza, avvolgendoli e al tempo stesso annientandoli. Un angelo probabilmente si manifesta così. “(p.25). Venezia è dunque un Angelo per Di Palmo; per Brodskij, invece, un pesce, nella sua conformazione geo-litologica, e persino nei gesti elementari dei suoi abitanti, memoria dei nostri “progenitori cordati” e “dell’ichtys stesso che ha dato inizio a questa civiltà (“Fondamenta degli incurabili”,p.11). Non stupisce che Venezia, città simbolica e ineffabile, sia stata ritratta da tanti poeti; e questo amore sia stato custodito,”per phantasmata et sensibilia” nello scrigno eterno e cangiante dell’Allegoria. Per i poeti la memoria è un libro; e quello di Di Palmo nasce e si sviluppa dalla memoria di altri libri con cui intesse un dialogo nutritivo; ecco dunque che le passeggiate dell’autore tra sottoporteghi e campielli si intrecciano con escursioni in altri libri celebri o meno: pagine proustiane sulla città lagunare e rari cataloghi d’arte; poesie e racconti, realistici o fantastici di classici della letteratura e scrittori dimenticati.

Ma la rilegatura che intesse le pagine (persino nella scelta minimalista di ordinare la magmatica materia dei capitoli in sequenze numeriche progressive) di questo libro materico e memoriale è fatta soprattutto dalle prose e i versi del poeta russo che visitava la città dal suo lungo esilio soltanto nella stagione invernale, in cui la realtà si manifesta nella sua crudezza e in cui “alle basse temperature la bellezza “è” bellezza”. Per i poeti descrivere una città può essere l’occasione di recuperare l’esperienza (supremamente poetica) della verginità. Si leggano le pagine dedicate a un ex libris di Brodskij che l’autore intravede per caso nella vetrina di una disadorna tipografia di Castello.

Il poetico si soffonde d’impoetico, di luoghi poveri, quasi banali. Nella ricerca successiva del prezioso oggetto, e della tipografia di cui (casualmente?) aveva dimenticato l’indirizzo, Di Palmo sperimenta l’esperienza di un’altra (ed alta) forma di amore, affidata al Fato, in cui consiste appunto il sentimento della verginità: amare qualcosa al di là del suo possesso, al punto di rischiare di lasciarla li dove è sempre stata, nell’invisibile che esiste solo per noi. Forse occorre uno sguardo vergine per cogliere un’apparizione fragile e misteriosa (che è poi l’unica possibile apparizione di Venezia) che suggella l’ultima pagina di questo libro: ” Mi viene in mente che, all’incirca un decennio fa, durante un bagno a Jesolo un enorme branco di cefali si era riversato alla riva andando a sfiorare i bagnanti, tra cui il sottoscritto. Io ero immerso fino al petto nell’acqua e potevo toccare queste enormi concentrazioni di pesci che si dirigevano in massa verso una determinata direzione, procedendo all’unisono, a scatti. Mi sentii quasi felice.”(p.153).
Adriano Napoli

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