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“L’ultima sonata” di Cristina Rava, morti ordinarie per una scrittura mai banale

Saranno pure morti ordinarie quelle nei romanzi di Cristina Rava, almeno così sostiene lei stessa, ma è la sua scrittura a non risultare mai banale. La narratrice di Albenga è fin troppo spietata nella spiritosa autocritica, tanto più se consideriamo quanto ci propone fin da subito nel nuovo giallo. Può considerarsi infatti tutto tranne che ordinaria la scena sul luogo del rinvenimento dei due primi cadaveri de “L’ultima sonata”, pubblicato da Garzanti a giugno (288 pagine, 16,90 euro). E visto che l’autrice è Cristina, la protagonista non può che essere Ardelia Spinola, medico legale che indaga nei suoi romanzi, una che sembra tanto dura all’esterno quanto è morbida dentro.

Le due vittime saranno state pure uccise banalmente a colpi d’arma da fuoco, ma volete mettere la scena, appositamente allestita dall’omicida? O meglio, la messinscena! Fiori, vestiti eleganti, corpi che sembrano sistemati in posa da un fotografo di fine ‘800. La giovane resta bellissima, nonostante tutto (“come una principessa delle fiabe”, osserva un carabiniere). Tra le mani, un bouquet di fiori appassiti copre il foro d’entrata di un proiettile. I capelli sono chiarissimi e i lineamenti nordici, forse slavi, in contrasto con quelli del partner, al quale è abbracciata: olivastro, sebbene livido, di aspetto sudamericano, se non mediorientale. Età presumibile delle vittime: tra i diciotto e i ventidue anni, ventitré al massimo.
Mai visto niente di simile: tutti sono d’accordo, a cominciare dal sostituto di turno e da Ardelia.

La dottoressa è stata convocata d’urgenza, distratta dalla preparazione di un incontro sentimentale ravvicinato. Stava concedendosi un inedito bagno in una schiuma voluttuosa a base di fragranze profumate e petali di rosa. Aveva distribuito qua e là candeline dell’Ikea per dare un tocco intimo e accogliente alla casa di Albenga. Lo squillo del cellulare e la laconica convocazione l’hanno costretta a dare lo stop al suo Arturo, ex manager riciclatosi in apicoltore per amore della natura, degli animali e della cultura.

Che sia quella povera ragazza uccisa la prostituta “piccola, esile e soprattutto diversa”, sulla quale ha puntato gli occhi il malintenzionato che ascolta in auto la sonata in sol minore di Tartini, nella violenta ouverture del romanzo?
È uno che sviluppa considerazioni tutt’altro che banali, compie atti crudeli e agisce con spietata determinazione, caricandosi con “Il trillo del diavolo”. Perché la musica barocca fa sentire potenti, così pensa.

Aggiunge che chi non ha educazione stenta a distinguere la bellezza dalla banalità, scambia per bello quello ch’è mediocre, anche se perfino gli animali amano la musica classica, le galline fanno più uova e le mucche più latte, riflette, contraddicendosi subito.
Sicchè, Ardelia Spinola si preparava a una serata galante con Arturo e si ritrova a passeggio col magistrato Bottini, sul luogo del delitto. Hanno entrambi un brutto presentimento: potrebbe trattarsi solo di un inizio.

Tornando all’incipit, l’appassionato di musica barocca accosta sull’Aurelia e fa montare la passeggiatrice in auto. Lei si accorge subito d’essere in trappola: guanti neri, sedili foderati di plastica. Una scarica di taser e sprofonda nell’incoscienza. È leggera, il viso di porcellana, capelli setosi come una sciarpa. Non è difficile legarla e farla scivolare sul sedile posteriore, sotto un plaid. La tratta con delicatezza, viene chissà da quale periferia dell’Est ma è diversa dalle altre, ha qualcosa di vivo, una minuscola scintilla di identità. Sparirà, è solo questione di tempo.

La sorpresa, per Ardelia e per tutti, è che Arturo ha raggiunto comunque la casa di Albenga, passando anche a comprare una provvidenziale farinata di ceci. I petali di rosa e le candeline d’atmosfera contrastano con le pantofole e la vestaglietta di ciniglia che la dottoressa indossa dopo cena. Un quadro poco sexy ma molto tenero, col braccio dell’uomo sulla spalla di lei, che a sua volta appoggia la testa alla tempia del partner.
Momenti dolci a parte, è tempo di fare il punto sulla penosa scoperta, nel titolo precedente (“Quando finiscono le ombre”, Garzanti, 2016), di un genitore naturale semi malavitoso, un personaggio sinistro, uno slavo, vicino a Milosevic. La madre era rimasta incinta prima di sposare l’uomo di cui Ardelia aveva fino ad allora creduto d’essere figlia.

Oltre ad essere sospesa tra la professione di medico legale e l’amore per Arturo e i gatti, la nostra anatomopatologa preferita è tormentata, da una parte, dal desiderio di ritrovare metà delle sue radici, visitare i luoghi e scoprire il popolo di cui condivide parte del dna. Dall’altra, sa bene ch’è prematuro. Non è ancora tempo. Non adesso.

Le giornate di un medico legale annegano nella banalità della routine. Non si pensi solo a cadaveri e autopsie, ci sono soprattutto riunioni della commissione invalidità. Poi verbali, rapporti, relazioni e il break a pranzo col solito tramezzino, accompagnato dal frullato kiwi-banana.
È molto più intensa la vita di un sequestratore. Ci sono ragazze da segregare, pulire, nutrire ad acqua, valium e poco più.
Moviola indietro, torniamo a qualche giorno prima: guardare quel fagotto sotto il plaid evoca sentimenti strani, non esclusa la compassione.
Ma la pena non serve, anzi, fa danno.

Quello che non arreca danni è questo romanzo. Piacerà.

 

Eugenio Valore

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