Sei qui: Home » Libri » Recensioni » “Everyman” di Philip Roth, una storia d’accettazione e di pienezza

“Everyman” di Philip Roth, una storia d’accettazione e di pienezza

Inizio a leggere Everyman sabato scorso. È bellissimo, mi avevano detto, ma parla della malattia e della morte quindi vedi tu. È stato il “bellissimo” ad attrarmi, non solo perché io sono restia a definire un libro “bellissimo”, ma anche perché, fra i buoni lettori, è difficile incontrare spesso qualcuno disposto ad esporsi tanto da dire “bellissimo”. Vado velocemente alla prima pagina del testo, subito al vivo del periodare di Philip Roth, senza indugiare sulla copertina, senza badare a niente.

Viene descritto un funerale, un funerale di un uomo solo, amato unicamente dalla figlia e dalla moglie che ha tradito. È la figlia la prima a tenere un discorso di commiato, ma non parla di lui, non riesce a parlarne. Se si ha il coraggio di amare nella presenza è quasi impossibile amare con la stessa consapevolezza anche nell’assenza. Sembra questo Nancy, una figura femminile spezzata, tutta terrena, capace di amare il padre proprio perché diversa da lui, proprio perché incapace di capirlo, capace di amarlo in vita, impossibilitata a compiangerlo nella morte. Parla del cimitero quasi scusandosi di aver scelto per la sepoltura un luogo così decadente, ma voleva che il padre riposasse accanto ai suoi genitori, e chiude dicendo “Devi prendere le cose come vengono. Tener duro e prendere le cose come vengono.”. Poi è la volta di Howie, il fratello del defunto, “Vediamo se ce la faccio” dice. Parla del fratello, della malattia, della solitudine, della sua passione per la pittura, poi inizia a spaziare “oltre la grande finestra soleggiata dell’infanzia” traendone un ricordo nitido e vivo del bambino che suo fratello è stato. Sul tessuto sensibile della memoria s’evidenzia il rapporto del fratello con il padre e con la professione del padre (venditore di diamanti e orologi), le differenze caratteriali e attitudinali fra i due fratelli.

Nessun dramma, nessuno screzio, soltanto due modi differenti di declinare la vita: il fratello era incuriosito dal lavoro del padre, docile, “fidato”, lui invece più preso dal desiderio di guadagno, dallo sport, dalle donne. È un uomo che ha amato il fratello e vorrebbe dire il meglio che può. È un uomo anziano e il meglio che può è usare la sua capacità d’evocare il passato, capacità che solo il passare del tempo porta a maturazione. Per un giovane il passato è sempre qualcosa che ha dimenticato, qualcosa che pone una differenza potenziale fra ciò che lui è e ciò che è stato, la testimonianza di una crescita, mentre per un anziano il passato è la testimonianza di un’integrità, la conferma di appartenere sempre a sé stesso, un marchio distintivo.

Il funerale è finito, pian piano i convenuti se ne vanno e restano solo il cimitero e le parole dell’autore “In tutto lo stato, quel giorno, si erano celebrati cinquecento funerali come il suo, altrettanto di ordinaria amministrazione..” “Ma la cosa più straziante è sempre la normalità, il constatare ancora una
volta che la realtà della morte schiaccia ogni cosa.” “Naturalmente, come quando muore qualcuno, anche se molti erano addolorati, altri rimasero impassibili, o provarono un senso di sollievo, o, per ragioni buone o cattive, erano sinceramente contenti.”

Il problema di questo libro non è la morte, la malattia o il cimitero, tutti ci abituiamo alla morte e al cimitero prima o poi. Quado sei piccolo non lo sai, ti sembra soltanto che ti cadranno i denti da latte e ti verrà un virus intestinale all’anno. Poi crescendo arrivi inevitabilmente al cimitero, chiudi le persone che ami dentro una bara e le muri in un’alcova umida. Passi ore e ore a immaginare quanto sarà insostenibile il dolore, quanto sarà insopportabile la perdita e poi te ne stai lì ammutolito cercando di non mandarti l’anima in pezzi. È un dolore che non puoi permetterti e lo sai, è l’unica cosa che sai. Non è il tema del racconto che mi sta causando questo contrattempo corporale d’immobilità ma la realtà dei personaggi, la realtà del momento descritto. È un racconto non letterario da cui è emersa già con chiarezza la volontà dell’autore di non censurare, di raccontare il sollievo che spesso e volentieri provoca una morte, anche se nessuno ha mai detto ad un funerale “sono felice che sia andata così”.

L’altra cosa perturbante è la capacità dell’autore di raccontare l’impossibilità degli esseri umani di andare al fondo della realtà che li riguarda, dei rapporti di cui sono protagonisti: così una figlia che ama ma non sa soffrire, una moglie che non riesce a perdonare, un figlio in cui l’astio nei confronti del padre che lo ha abbandonato ha il sopravvento sulla sofferenza della perdita irrimediabile. Questo “piano di fuga” dalla vera sofferenza non so ancora se debba essere ritenuto sintomo di una società che si evolve, come la terza guerra mondiale che non può essere combattuta, non come è stato sempre fatto, perché sarebbe troppo distruttiva, o il sintomo di una società che marcisce. Philip Roth è di questo che sta parlando, è su questo che interroga il lettore.

Faccio una pausa. Lascio il libro lì, sul comodino, e lo riprendo a fine giornata. Questo libro che inizia con la morte del protagonista procede poi con il raccontarne la vita, svelando e chiarendo i rapporti che legavano il defunto ed i partecipanti al suo funerale. La storia della sua vita si snoda partendo dai vari momenti in cui è stato malato o ha avuto contatti con la morte. Il racconto delle sue storie d’amore avviene in funzione dello stato sentimentale in cui il protagonista ha dovuto affrontare i suoi vari interventi o i lutti che si sono susseguiti nella sua esistenza: sostenuto quando dall’affetto dei genitori, quando da un’amante premurosa ma impossibilitata dall’emicrania, quando da una moglie troppo giovane e impreparata, quando da un’infermiera che era solita arrecare conforto ai suoi assistiti, e infine senza più nulla che lo sostenesse, nella solitudine, affronta l’ultimo intervento che lo condurrà alla morte, sentendo di aver dato troppo poco agli altri per trovare il coraggio di chiedere che qualcuno gli stia accanto. Il protagonista di questa storia, che più che un personaggio sembra qualcuno a cui è stata rubata la vita e messa nero su bianco, non è infelice. Lui non si perde nel dramma e nella morte, teme le malattie ma quando capisce che la precarietà del suo corpo sarà una cosa che non potrà più ignorare impara a conviverci, il suo motto: “è impossibile rifare la realtà”. È un essere umano che non riesce a perdurare in uno stato sentimentale definitivo, sembra non essere mai pienamente consapevole di ciò che avviene, come se si limitasse ad adattarsi a ciò che avviene. Sembra che l’unica cosa che gl’interessi
davvero sia non turbare il moto quieto e ondulatorio della sua esistenza. Ma se nelle azioni, nei fatti della sua vita possiamo leggere questo, in realtà quest’uomo è molto altro. Nel suo stato d’assopimento permane, come se solo i fatti davvero rilevanti potessero spingere l’interruttore per attivarlo, un feroce e violento amore per le cose semplici e reali dell’esistenza, una fervida capacità di provare compassione ed empatia, il dono d’avere uno sguardo lucido sul mondo.

È indubbio che i legami più forti per lui sono i legami familiari; le cose che sente più intensamente sono l’amore verso il fratello e il dramma della morte dei genitori. “Ma nulla di ciò che credeva o non credeva ebbe la minima importanza il giorno in cui suo padre fu sepolto accanto a sua madre nel cimitero in rovina vicino alla Jersey Turnpike.” “Voleva pregarli di smettere, intimargli di non andare oltre: non voleva che coprissero la faccia di suo padre e bloccassero i passaggi attraverso i quasi succhiava la vita. Ho guardato quella faccia da quando sono nato: smettete di seppellire la faccia di mio padre!”. Fino alla vecchiaia torna a rielaborare la perdita dei suoi genitori, la riflessione nasce sempre per lui da un contatto con qualcosa che fa parte della realtà, come una visita alle loro tombe: “Evocò facilmente l’ultimo ricordo che aveva di ciascuno dei due – il ricordo dell’ospedale – ma quando cercò di evocare il primissimo ricordo, lo sforzo che fece per spingersi più indietro che poteva nel passato che avevano in comune sollevò un’altra ondata di emozione che lo travolse.” Ed è proprio attraverso le esplorazioni che quest’uomo fa nel suo passato, passato che spesso utilizza per illuminare il presente, che noi riusciamo a conoscere il nocciolo della sua umanità: l’amore per la moglie che ha tradito da come ne ricorda i ventisei anni, l’amore intenso per l’infanzia dalla magistrale descrizione che fa ripescando nella memoria i suoi giochi con le onde, l’amore per la figlia dalla tenerezza con cui evoca i suoi primi successi sportivi e così via.

Everyman è un racconto che pone i suoi snodi narrativi intorno a momenti di malattia e di morte, ma racconta la storia di un uomo che brucia di una passione senza aspettative e senza pretese per la vita. Un uomo che davanti al suicidio resta incapace di comprendere, non che si debba temere la morte ma perché rinunciare prima del dovuto alla “sovrabbondanza” dell’esistenza?

Everyman è stata definita una storia di rimpianto e perdita, una riflessione sulla mortalità della condizione umana, ma leggendola sembra più una storia d’accettazione e di pienezza, tutto ciò che è perso è prima ricevuto e la mortalità della condizione umana serve per riflettere sulla straordinarietà della condizione del vivere. Roth con il suo stile incensurato, raccontando una storia a cui non aggiunge niente ma semplicemente denuda, riesce a condurre il lettore in un percorso fra morte e malattia dal quale il lettore esce illeso. Si attua la catarsi del grande teatro tragico greco, ma la verità che libera
l’essere umano dalla condizione d’inconsapevolezza che lo rende peccatore è, in questo caso, non una verità rivelata, ma il fatto che l’uomo accetti il reale senza sperare che una verità venga rivelata perchè il reale è intriso di questa verità. L’idea che l’esistenza abbia un valore in sé che va oltre l’agire dell’uomo che la vive, l’idea che i rapporti umani ed il dolore giustificano qualsiasi esistenza, credo sia il messaggio più importante di Everyman, che più che una lunga riflessione sulla morte mi sembra una lunga e lucida riflessione sulla vita.

 

Mariachiara Rafaiani

 

© Riproduzione Riservata