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Pier Paolo Pasolini, il contributo artistico tra cinema e poesia

Maria Elena Centonze ci regala un'interessante riflessione su quel che è stato il contributo intellettuale di Pier Paolo Pasolini, un artista capace di mescolare con abilità diverse espressioni artistiche

Pier Paolo Pasolini non fu solo un grande poeta – sicuramente uno degli intellettuali più influenti del XX secolo – ma anche un regista di rara sensibilità. Entrato presto a contatto con la macchina da ripresa, affascinato da sempre dal cinematografo, egli riuscì a dare un’anima e un corpo al suo amore per l’arte, tessendo fra il linguaggio cinematografico e quello poetico un filo lungo e teso dalla critica alla borghesia.

Pasolini tra cinema e poesia

Il trait d’union fra poesia e cinema diventa dunque l’immagine; che non a caso, per un’amante dell’arte come lui –la sua tesi all’università di Bologna sarà proprio sull’arte del Novecento- diviene concretizzazione dell’oggettiva realtà, attraverso un immaginario onirico e soggettivo.
Il cinema viene concepito come una successione di immagini della memoria e dei sogni, archetipi soggettivi, e dalle immagini del reale veicolate dalla mimica, archetipi intensamente oggettivi.

Il cinema secondo Pier Paolo Pasolini

Pier Paolo Pasolini è dell’idea che il cinema debba mantenere una denotazione oggettiva e una connotazione allegorica-soggettiva; pensa tuttavia che il cinema moderno abbia sempre violentato questi elementi irrazionali, costruendo una convenzione narrativa propria della comunicazione di prosa che nel venir meno, cede il passo all’altro importante fattore di questo binomio per lui imprescindibile: la razionalità.

La lingua cinematografica è dunque per Pier Paolo Pasolini posta tra la comunicazione espressiva e la comunicazione riflessiva; la prima fase, propriamente oggettiva, si ha nel momento in cui il regista opera la scelta di rappresentare la realtà, attraverso un linguaggio espressivo che possa darle un corpo appropriato e visibile in ampia scala.

La seconda fase, quella prettamente soggettiva della riflessione, ammicca al “cantuccio” manzoniano, momento che l’autore riservava a fine rappresentazione per le proprie considerazioni e per un eventuale commento. Allo stesso modo Pier Paolo Pasolini, o mediante un personaggio o se stesso, lascia sempre uno spiraglio per una critica personale, per la forte volontà di comunicare qualcosa, di trasmettere il proprio pensiero.

La Ricotta e la critica alla borghesia

Ne vediamo un esempio nel cortometraggio “La Ricotta“, con la critica all’uomo medio e alla borghesia tutta. La scelta delle immagini si esplicita subito nella sua doppia natura, i cui due momenti coesistono strettamente e non sono separabili. Il cinema infatti è potentemente metaforico ma altrettanto comunicativo; non può presentare immagini astratte ma solo quelle che coincidono con la realtà.

In simbiosi con le immagini, che ne veicolano la valenza “pratica”, esso apre alla poesia, che si insinua naturalmente tramite il filo del discorso indiretto libero: l’autore si immerge nel personaggio e ne adotta la psicologia e la lingua. Esso corrisponde, a differenza del monologo dove sono presenti visioni prettamente soggettive e astratte, a una visione generale, che oscilla fra soggettività e oggettività senza mai pendere troppo da un lato o dall’altro.

Il linguaggio cinematografica

Una lingua cinematografica non può che corrispondere all’ideologia e al contesto culturale dell’autore, che svolge, attraverso la soggettività, la funzione di ispirazione poetica pura. Il cinema pasoliniano dunque pone l’accento non soltanto sulla “poesia della realtà”, ma sull’istante creativo, sulla costruzione che opererà lo stile; e l’influenza poetica permette il ritorno all’introspezione tipica dell’immaginazione, della memoria e dei sogni, tipicamente visionaria.

Ecco quindi che per Pasolini, come per tutti gli intellettuali del Novecento, diviene fondamentale il binomio dentro-fuori/soggettivo-oggettivo; e non sarà l’unico al quale il poeta, cercando di unire poesia e cinema, dovrà far fronte. Vedendosi a fianco costantemente l’ombra della propria vita, descriverà la realtà filtrandola dalle sue esperienze, ripescando gli aspetti da altri definiti “mercenari” e che invece incarnano al meglio la bramosia di vivere tutto, le borgate popolari romane e la propria sessualità.

Pasolini e la poesia

In diverse poesie e in particolar modo nella raccolta “Le ceneri di Gramsci”, Pier Paolo Pasolini affronta diverse tematiche che in seguito riprenderà anche nel grande schermo: le immagini, i colori, le sensazioni (che nel primo Pasolini ricordano le tendenze pascoliane) e soprattutto il gioco di luce-ombra anticipano vividamente il suo linguaggio cinematografico; gli strumenti espressivi rimandano al contrasto da sempre vissuto fra l’essere borghese e il desidero di regressione negli aspetti più volgari del mondo, presenti sin dal primo poemetto.

Nella poesia “Canto popolare”, che apre la raccolta, la luce è prima descritta come abbagliante e identificata poi con la modernità, che non riesce però ad illuminare il popolo che resta fuori fuoco, “fuori dalla storia”.

Il poemetto si conclude invece con una quasi regressione nel mondo popolare “la luce di chi è ciò che non sa” identificato da un ragazzo del proletariato romano che canta spensierato sulla riva dell’Aniene “la antica, la festiva, leggerezza dei semplici”. Il gioco luce-ombra e l’immagine del ragazzo romano del proletariato anticipano Mamma Roma, il secondo film di Pier Paolo Pasolini che dà spazio alla storia quotidiana di “mamma Roma” e il figlio.

La luce, che dapprima abbaglia il popolo, abbaglia anche il giovane Ettore, che avverte sin da subito il forte distacco con la borghesia, oggetto del suo pieno disprezzo: “tanto i borghesi so’ tutti stupidi”. Non solo rivelazione violenta, ma anche illuminazione progressiva, essa guida il percorso di chi non sa cos’è, metafora pregnante della condizione di Ettore, che si trova a scoprire non solo il lavoro che la madre faceva, ma comprenderà, a differenza della madre che vivrà con la convinzione di poter fare una scalata sociale, che la sua e quella della madre, sono una povertà prima di tutto interiore, destinata al buio.

Tra cinema e poesia

Al film “Mamma Roma”, non si può evitare di accostare “poesia a forma di rosa”, tratta dalle poesie mondane, scritta nello stesso anno di Mamma Roma (sebbene pubblicata due anni dopo nel ’64), in cui l’autore dimostra quanto il cinema si fosse cristallizzato nella sua vita come forma stabile d’espressione.

Questi versi descrivono infatti un viaggio (e il cinema, come disse Godard, è un viaggio fatto ad occhi chiusi) attraverso lo sguardo di un obiettivo per macchina da presa e proseguito poi in giro per la campagna. Così il mondo del cinema si contamina del contatto agreste e va in direzioni ambigue: contro la propria natura di macchina industriale (chiaro richiamo ai Quaderni di Gubbio Serafino Operatore, opera simbolo della profezia sullo scontro uomo-macchina) e seguita verso gli scorci della pittura masaccesca: quegli scorci di luce e chiaroscuri, che richiamano anche il poemetto prima letto e tutta la raccolta di Gramsci.

Il Medioevo è inteso come dimensione storica e dell’anima, dove tutte le passioni sono portate alla loro massima espansione, che rasenta quasi l’esagerazione (lo vedremo nella Ricotta) in un’altalena di martirio e scandalo.

Altro elemento comune è la parte finale, dove compare la Madonna, che parla in dialetto, avanza inquadrata come la prostituta Mamma Roma che per tre scene cammina frontalmente mentre la macchina da ripresa indietreggia, su un carrellino con le ruote.

La Visione di questa scena risveglia i sensi del poeta, spaziando fra momenti di pura religiosità cristiana e quegli inferni quotidiani che la condizione di povertà crea.

In un unico quadro Maria dialoga con la luce e i pastori, le puttane, i ladri, il mondo della periferia romana e gli anni Sessanta, che ad un tratto vengono percepiti e catapultati verso il primo Millennio.

In tutto questo, l’amore per il mondo proletario, destinato a scomparire, è evidente nella malinconica descrizione finale del quartiere operaio Testaccio: gli operai tornano nelle loro case, si accendono i lumi, i giovani gridano nelle piazze.

La nostalgia

Quella di Pasolini è dunque una nostalgia verso il mondo che può provare solo chi sa di esserne lontano, come lui – osservatore e narratore -, ove domina l’io che si autoelegge santo, confrontandosi con i pubblici ricattatori, gli aspersori di moralità e banalità addosso ai quali Pasolini getta la loro maschera per incamminarsi sulla strada del Martirio, consapevole che l’attenzione a quel mondo – solo casualmente distante – gli riserverà il suo posto tra i martiri così sinceramente raccontati.

È pertanto Pasolini osservatore di questo mondo e non partecipe delle gioie dei ragazzi di cui constata la purezza e al contempo l’inevitabile declino.

Il mito

La società dei consumi, imponendo nuovi valori e un nuovo linguaggio, è la causa della fine di questo mondo puro, dal momento che ha omologato i costumi degli italiani, eliminando i tratti più originali del mondo popolare o forse solo i più evidenti. Non si tratta dunque di un taglio netto, solo superficiale, portato a compimento e constatabile dai nuovi consumatori. L’espressione della realtà popolare rimane salda al suo ceppo di semplicità e purezza umana, ora più vero che mai, visibile ad uno sguardo meno ampio ma più intenso e profondo, di cui Pasolini si fa occhio.

Cogliere gli aspetti ancestrali della povertà, sviscerare le tragedie e amplificare il canto popolare, scorgendo nella comunità la prima umanità: il mito.

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