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Perché A Zacinto è un inno a non smettere di cantare la bellezza

Il sonetto A Zacinto è uno dei più celebri di Ugo Foscolo, scritto a Milano negli ultimi mesi del 1802 e nei primissimi del 1803

MILANO – Originariamente conosciuto dal suo primo verso come Né più mai toccherò le sacre sponde, il sonetto A Zacinto è uno dei più celebri di Ugo Foscolo, scritto a Milano negli ultimi mesi del 1802 e nei primissimi del 1803.

Il tema centrale del componimento è l’esilio, ma la nostalgia per la terra natia non è soltanto da intendersi nostalgia per la patria lontana e negata.

La situazione di esule descritta da Foscolo è più aperta e vicina alla condizione esistenziale dell’ uomo smarrito, allontanato dalle limpide nubi. Nel sonetto infatti il poeta esprime dei sentimenti che sono universali e possono riguardare ogni individuo, ovvero vengono cantati gli affanni del non vivere in una pace interiore e in armonia con la realtà.

La vita turbolenta e “guerriera” di Foscolo, tutto il suo impeto romantico, soffrono la mancanza di un luogo ideale dove potersi sentire sereno, una posizione d’animo che è senza dubbio una costante peculiare del poeta, ma questo stato d’essere nell’opera in oggetto viene a mio avviso amplificato.

Voglio dire che viene reso comune ad ogni uomo di sempre perché viene raccontato lo smarrimento di quella condizione originaria e feconda in cui poter vivere con il primo sorrisoZacinto mia, che te specchi nell’onde / del greco mar da cui vergine nacque / Venere, e fea quelle isole feconde.

Nonché viene descritto lo smarrimento della purezza dei sentimenti del fanciullo, ove il mio corpo fanciulletto giacque.

Il poeta allora canta per ogni figlio ed uomo, il canto avrai del figlio,  inneggiando alla mancanza di questo stato immacolato che viene trasposto in una terra mitica  di nome Zacinto, stato immacolato che potrà continuare ad esistere grazie alla poesia, così da fare eco alla sua folgorante grazia smarrita.

Allora in noi lettori lo splendore tratteggiati in versi del mare e dell’isola di Zacinto divengono evocatori di questa purezza antica e idea di bellezza primordiale che risvegliano l’amore per il creato insito in ognuno di noi, e ci fanno vedere nell’altro un prossimo da amare e una materna terra a cui prestare cure come farebbe il miglior giardiniere.

La bellezza che dunque accoglie le nostre difficoltà ed angosce e carezzandole ci ricolloca rigenerandoci. (Motivi per cui se ci pensate, siamo sempre attratti da lei e costantemente alla sua ricerca).

Da qui si può scorgere il monito del poeta, ovvero di cantarne il fascino e l’incanto affinché la sua magnificenza non scompaia e cessi di illuminare.

Ed il poeta realizza tutto ciò in un noi collettivo, a noi prescrisse, e lo fa con lo strumento che possiede, il canto, e con quanto ardore possibile, tu non altro che, perché se si smette di farlo, allora si che questa idea di bellezza e i suoi benefici saranno persi per sempre.

 

 Né più mai toccherò le sacre sponde

 ove il mio corpo fanciulletto giacque,

 Zacinto mia, che te specchi nell’onde

 del greco mar da cui vergine nacque

 Venere, e fea quelle isole feconde

 col suo primo sorriso, onde non tacque

 le tue limpide nubi e le tue fronde

 l’inclito verso di colui che l’acque

 cantò fatali, ed il diverso esiglio

 per cui bello di fama e di sventura

 baciò la sua petrosa Itaca Ulisse

 Tu non altro che il canto avrai del figlio,

 o materna mia terra; a noi prescrisse

 il fato illacrimata sepoltura.

 

Carlo Picca

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