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“Nedda”, la novella di Giovanni Verga antesignana del Verismo

Maturità 2022, prima prova. È un estratto di “Nedda” l’oggetto della seconda traccia di tipologia A. Scopriamo di più sulla novella scritta da Giovanni Verga e sul brano selezionato per la prova d’esame.

Fra le tracce oggetto della prima prova di Maturità, è stato scelto un testo tratto da “Nedda”, la novella scritta da Giovanni Verga – di cui quest’anno abbiamo celebrato il centenario dalla morte, avvenuta il 27 gennaio 1922 – e pubblicata nel lontano 1874.

L’estratto è stato inserito fra le due tracce d’esame di tipologia A, quella dedicata all’analisi del testo. In particolare, ai maturandi veniva richiesto di leggere e analizzare l’estratto di “Nedda”, di rispondere a 5 domande e, infine, di redigere un commento che mettesse in relazione la novella, gli “ultimi” e il Ciclo dei Vinti. Ma andiamo a conoscere più da vicino il testo oggetto d’esame tratto da “Nedda”.

“Nedda”, l’estratto oggetto della traccia d’esame

Era una ragazza bruna, vestita miseramente; aveva quell’attitudine timida e ruvida che danno la miseria e l’isolamento. Forse sarebbe stata bella, se gli stenti e la fatica non ne avessero alterato profondamente non solo le sembianze gentili della donna, ma direi anche la forma umana.

I suoi capelli erano neri, folti, arruffati, appena annodati con dello spago; aveva denti bianchi come l’avorio, e una certa grossolana avvenenza di lineamenti che rendeva attraente il suo sorriso. Gli occhi erano neri, grandi, nuotanti in un fluido azzurrino, quali li avrebbe invidiati una regina a quella povera figliuola raggomitolata sull’ultimo gradino della scala umana, se non fossero stati offuscati dall’ombrosa timidezza della miseria, o non fossero sembrati stupidi per una triste e continua rassegnazione.

Le sue membra schiacciate da pesi enormi, o sviluppate violentemente da sforzi penosi erano diventate grossolane, senza essere robuste. Ella faceva da manovale, quando non aveva da trasportare sassi nei terreni che si andavano dissodando, o portava dei carichi in città per conto altrui, o faceva di quegli altri lavori più duri che da quella parte stimansi inferiori al compito dell’uomo.

La vendemmia, la messe, la raccolta delle olive, erano per lei delle feste, dei giorni di baldoria, un passatempo, anziché una fatica. È vero bensì che fruttavano appena la metà di una buona giornata estiva da manovale, la quale dava 13 bravi soldi! I cenci sovrapposti in forma di vesti rendevano grottesca quella che avrebbe dovuto essere la delicata bellezza muliebre.

L’immaginazione più vivace non avrebbe potuto figurarsi che quelle mani costrette ad un’aspra fatica di tutti i giorni, a raspar fra il gelo, o la terra bruciante, o i rovi e i crepacci, che quei piedi abituati ad andar nudi sulla neve e sulle rocce infuocate dal sole, a lacerarsi sulle spine, o a indurirsi sui sassi, avrebbero potuto essere belli.

Nessuno avrebbe potuto dire quanti anni avesse codesta creatura umana; la miseria l’aveva schiacciata da bambina con tutti gli stenti che deformano e induriscono il corpo, l’anima e l’intelligenza. – Così era stato di sua madre, così di sua nonna, così sarebbe stato di sua figlia. (…) Tre giorni dopo udì un gran cicaleccio per la strada. Si affacciò al muricciolo, e vide in mezzo ad un crocchio di contadini e di comari Janu disteso su una scala a piuoli, pallido come un cencio lavato, e colla testa fasciata da un fazzoletto tutto sporco di sangue.

Lungo la via dolorosa che dovette farsi prima di giungere al casolare di lui, egli, tenendola per mano, le narrò come, trovandosi così debole per le febbri, era caduto da un’alta cima, e s’era concio a quel modo. – Il cuore te lo diceva! mormorò egli con un triste sorriso. Ella l’ascoltava coi suoi grand’occhi spalancati, pallida come lui, e tenendolo per mano. L’indomani egli morì. (…)

Adesso, quando cercava del lavoro, le ridevano in faccia, non per schernire la ragazza colpevole, ma perché la povera madre non poteva più lavorare come prima. Dopo i primi rifiuti e le prime risate ella non osò cercare più oltre, e si chiuse nella sua casupola, come un uccelletto ferito che va a rannicchiarsi nel suo nido. Quei pochi soldi raccolti in fondo alla calza se ne andarono l’un dopo l’altro, e dietro ai soldi la bella veste nuova, e il bel fazzoletto di seta.

Lo zio Giovanni la soccorreva per quel poco che poteva, con quella carità indulgente e riparatrice senza la quale la morale del curato è ingiusta e sterile, e le impedì così di morire di fame. Ella diede alla luce una bambina rachitica e stenta: quando le dissero che non era un maschio pianse come avea pianto la sera in cui avea chiuso l’uscio del casolare e s’era trovata senza la mamma, ma non volle che la buttassero alla Ruota.

La povertà di Nedda

Ciò che immediatamente colpisce di questo stralcio verghiano è la minuziosa descrizione fisica che l’autore fa di Nedda, la protagonista del racconto ritenuto prototipo del Verismo. Nedda è una giovane donna evidentemente affaticata e appesantita dalle circostanze della vita. Lo capiamo dal detto e, soprattutto, dal non detto.

Nedda è infatti “vestita miseramente”, un po’ “ruvida” nei modi, con le “membra grossolane”, plasmate dalle fatiche di lavori più che usuranti. Emblematico dei grandi sforzi cui è sottoposta la povera donna di solito, è che quando le viene proposto di aiutare durante la vendemmia o la raccolta delle olive – lavori molto duri e faticosi –, Nedda è addirittura sollevata.

Tutto, nella descrizione di Giovanni Verga, lascia immaginare una protagonista che vive immersa nella miseria e che altrimenti sarebbe stata molto diversa. Infatti, è dal non detto, da ciò che non è ma potrebbe essere stato, che comprendiamo ancor più nel profondo la condizione del personaggio, dall’avvenenza che scompare dietro l’aspetto grossolano, dai “cenci” che nascondono una forma che avrebbe potuto essere di “delicata bellezza muliebre”, dalle mani e dai piedi, induriti dal sole, dal gelo, dai sassi e dai rovi, che “avrebbero potuto esser belli”.

Quando poi Verga passa al racconto della triste storia di Nedda, il quadro di miseria e povertà si fa ancor più completo. Abituata a darsi sempre da fare pur di lavorare ogni giorno per portare qualcosa a casa, Nedda svolge qualsiasi mansione le venga proposta. Un giorno, però, tutto cambia, e anche questa minima fonte di guadagno e parziale sicurezza che le era data, scompare.

Il compagno, Janu, muore a seguito di un incidente sul lavoro. Quando Nedda scopre di aspettare un figlio dal defunto compagno, il deterioramento sociale del personaggio è conclusa: in un ambiente di miseria e ignoranza come quello in cui vive Nedda, una donna senza marito che dà alla luce un figlio è qualcosa da condannare e allontanare dalla collettività.

“Nedda” e il rapporto con il Verismo

In “Nedda”, Verga racconta la povertà e la discriminazione, racconta di come una donna è stata costretta ad abbandonare la figlia per riuscire a sopravvivere, e lo fa in un modo che si avvicina ma non coincide ancora del tutto con le modalità del Verismo.

Il tono patetico con cui l’autore ci fa familiarizzare con la protagonista, l’assenza dell’impersonalità, dei dialettalismi e dei regionalismi ci fanno comprendere come la transizione verista non sia del tutto avvenuta con “Nedda”. Dall’altra parte, tuttavia, tanto l’ambientazione siciliana quanto il forte interesse per la fascia indigente della società che si traduce con l’utilizzo di un lessico altrettanto umile, ci fanno rendere conto della vicinanza con la corrente verista.

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