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“Mastro-don Gesualdo”, la roba e il destino dei vinti

Il 2 settembre del 1840 nasceva a Catania Giovanni Verga. Per l'occasione, vi parliamo di "Mastro-don Gesualdo", il secondo romanzo del "Ciclo dei vinti".

Mastro-don Gesualdo” è uno dei capolavori nati dalla penna di Giovanni Verga, di cui oggi ricorre l’anniversario della nascita. Esponente di spicco del VerismoGiovanni Verga ha segnato la storia della letteratura italiana con le sue opere e la sua poetica, ispirata al Naturalismo francese e votata alla scientificità e all’impersonalità. “Mastro-don Gesualdo” racconta di un uomo di Vizzini che vive durante il periodo risorgimentale, nella prima metà dell’Ottocento.

Il progetto del “Ciclo dei vinti”

“Mastro-don Gesualdo”, il libro di cui vi parliamo oggi, è frutto di un’opera molto più ampia, denominata dallo stesso Verga “Il Ciclo dei vinti”, un ambizioso progetto letterario che ricorda “Il Ciclo dei Rougon-Maquart” di Emile Zola e che, malgrado l’impegno dell’autore siciliano, non fu mai portato a termine.

Il ciclo verghiano avrebbe dovuto racchiudere 5 opere, ognuna con un tema specifico: “I Malavoglia”, primo romanzo della raccolta, incentrato sulla lotta per la sopravvivenza; “Mastro-don Gesualdo”, imperniato sull’ambizione di scalare la gerarchia sociale; “La duchessa di Leyra”, rimasto incompleto, che avrebbe dovuto rappresentare l’ambizione aristocratica.

Infine, altri due titoli mai realizzati – “L’onorevole Scipioni” e “L’uomo di lusso” – avrebbero dovuto raccontare rispettivamente l’ascesa politica e quella artistica.

In effetti, è ben visibile già da questa breve presentazione come dietro al “Ciclo dei vinti” ci sia la volontà di mostrare l’universalità dell’ambizione di noi esseri umani, l’eterna lotta sociale – e di sopravvivenza – che ciascuno di noi mette in atto a scapito del prossimo.

Le intenzioni di Giovanni Verga

Nella prefazione ai “Malavoglia“, che resta l’opera più conosciuta e apprezzata di Giovanni Verga, l’autore illustra l’idea che si cela dietro al progetto del “Ciclo dei vinti“, che si sarebbe dovuto chiamare “La marea”, proprio a rimarcare il concetto che il cosiddetto “progresso” non produce solo effetti positivi, ma investe, calpesta e travolge i più deboli:

“Questo racconto è lo studio sincero e spassionato del come probabilmente devono nascere e svilupparsi nelle più umili condizioni le prime irrequietudini pel benessere; e quale perturbazione debba arrecare in una famigliuola, vissuta sino allora relativamente felice, la vaga bramosia dell’ignoto, l’accorgersi che non si sta bene, o che si potrebbe star meglio.

Il movente dell’attività umana che produce la fiumana del progresso è preso qui alle sue sorgenti, nelle proporzioni più modeste e materiali. Il meccanismo delle passioni che la determinano in quelle basse sfere è meno complicato, e potrà quindi osservarsi con maggior precisione. Basta lasciare al quadro le sue tinte schiette e tranquille, e il suo disegno semplice. Man mano che cotesta ricerca del meglio di cui l’uomo è travagliato cresce e si dilata, tende anche ad elevarsi e segue il suo moto ascendente nelle classi sociali …”.

“Mastro-don Gesualdo”

Consapevoli dell’idea che risiede dietro al “Ciclo dei vinti”, possiamo guardare più agevolmente a “Mastro-don Gesualdo”, la storia di un uomo umile che fa il muratore e che negli anni ha accumulato un gruzzolo di denaro che adesso vorrebbe mettere a frutto concorrendo all’asta per la gabella delle terre comunali.

Per rendere ufficiale la scalata nella gerarchia sociale e scrollarsi di dosso l’ombra della povertà, Gesualdo vorrebbe sposare una donna dai nobili natali. Dopo diverse peripezie, l’uomo riesce a prendere in moglie Bianca Trao, un’aristocratica decaduta – che deve urgentemente ricorrere ad un matrimonio riparatore – bisognosa di ricchezze che lo farà sempre sentire escluso, solo, diverso, non degno di lei.

Gesualdo vivrà per tutta la vita diviso, scisso fra due realtà che non lo riconoscono. Da qui nasce l’ambivalenza del titolo del romanzo: per gli aristocratici, l’uomo rimarrà per sempre un “mastro”; per il popolo, sarà diventato un “don”. L’esclusione di Gesualdo passa anche attraverso la famiglia, rappresentata dalla moglie e dalla figlia, nata dalla relazione clandestina che Bianca intratteneva con il cugino prima di sposare Gesualdo.

Terribilmente solo, privo di qualsivoglia dimostrazione d’amore, Gesualdo terminerà i suoi giorni da vedovo, nella dimora di una figlia da cui mai si è sentito apprezzato e per cui invece ha fatto di tutto. Mastro-don Gesualdo morirà soffrendo fisicamente per un brutto male ma, soprattutto, moralmente nel vedere tutte le ricchezze, accumulate con anni di fatica, dilapidate da una figlia ingrata e incurante dei suoi sentimenti. Celeberrime le pagine in cui Verga racconta gli attimi prima della dipartita del protagonista, disperatamente attaccato alla sua “roba”:

“Disperato di dover morire, si mise a bastonare anatre e tacchini, a strappar gemme e sementi. Avrebbe voluto distruggere d’un colpo tutto quel ben di Dio che aveva accumulato a poco a poco. Voleva che la sua roba se ne andasse con lui, disperata come lui.”

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