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Luigi Pirandello, Mattia Pascal e la scoperta del valore dell’umorismo

Il fu Mattia Pascal (1903)  è il primo grande frutto di quella poetica dell’io diviso di Pirandello. La vicenda rompe quei criteri di verosimiglianza e di oggettività su cui si fondava la rappresentazione naturalista. L’unità del personaggio che parla in prima persona è frantumata dal suo riferirsi a tre diverse incarnazioni: il primo Mattia Pascal, Adriano Meis, ed il redivivo Pascal. Ciascuna delle quali impone sul racconto un punto di vista diverso accumunato da una riflessione sull’umorismo che sarà teorizzata successivamente nel saggio L’umorismo del 1908.  Mattia è un prototipo originalissimo di eroe al negativo, in tutto degno di stare al fianco di quegli altri buffi inetti che sono protagonisti dei due primi romanzi, più precoci di qualche anno, di Svevo. Si può certamente dire che questo romanzo, assieme a quelli dello scrittore triestino, inaugurino la narrativa novecentesca italiana che rompe definitivamente con le convenzioni della narrativa ottocentesca.

“Perché la vita, per tutte le sfacciate assurdità, piccole e grandi, di cui beatamente è piena, ha l’inestimabile privilegio di poter fare a meno di quella stupidissima verosimiglianza, a cui l’arte crede suo dovere obbedire”.

Il romanzo fu scritto dopo la grave crisi familiare del 1903, che pose Pirandello in cattive condizioni economiche e scatenò la malattia mentale della moglie. Fù pubblicato a puntate sulla rivista Nuova Antologia fra l’aprile e il giugno del 1904 e poi, in volume, nello stesso anno, come estratto di questo periodico. Una tipica scena che rappresenta al meglio la riflessione umoristica che nasce in questo romanzo e che accompagnerà la futura produzione di Pirandello è quella presente nel capitolo V, in cui, nella zuffa fra la vedova Pescatore e la zia Scolastica, Pascal, davanti allo specchio, vede sul suo viso lacrime sia di dolore che di riso. L’atto della auto riflessione e dello sdoppiamento, la mescolanza dei contrari, il riso ed il pianto, il dolore che si somma al ridere, generano un sentimento di autoironico compatimento nei propri confronti, quel sentimento del contrario alla base di questa nuova poetica pirandelliana. Pascal sa bene che non dovrebbe ridere, ma conosce anche bene i motivi, del tutto seri, che lo inducono a ciò, e riflette su tutti questi aspetti mentre genera un atteggiamento umoristico nei propri confronti. In questo contesto, l’epos non ha diritto di cittadinanza, subito viene trasformato in riso che coglie aspetti ridicoli o inopportuni: l’uno è l’atto di vedersi vivere come attore di una tragedia ormai trasformata in farsa, come maschera costretta a recitare un ruolo, qui di marito e figlio amoroso, l’altro è quello di guardarsi allo specchio e di ritrovarsi l’immagine dell’occhio sbilenco che gli permette di distrarsi e guardare altrove.

Come detto questo sentimento dei contrari verrà teorizzato nel saggio L’Umorismo  e sarà da questo momento in poi un elemento indispensabile della nuova produzione dello scrittore siciliano. Il fu Mattia Pascal è il romanzo che fa da incubatore a questa profonda riflessione di Pirandello che per l’appunto snocciolerà attentamente in questo saggio del 1908.  In questo lavoro Pirandello si preoccuperà infatti di distinguere l’umorismo come sentimento del contrario, dal comico, ovvero semplice avvertimento del contrario. L’umorismo ha un’accezione più profonda rispetto al comico perche rivela le sfasature contrarie mentre scopre la sofferenza che c’è dietro. Il saggio, proseguendo poi, farà una larga rassegna storica degli scrittori giudicati da Pirandello umoristi, fornendo la mappa psicologica spirituale dell’umorista. Va notato che L’Umorismo una volta pubblicato venne proprio dedicato “Alla buon’anima di Mattia Pascal bibliotecario”.  Quel Pascal, che cercando in tutti i modi una collocazione esistenziale che lo metta a suo agio, non riuscirà che a trovare sempre delle convenzioni che ne circoscrivono l’esperienza. L’umorismo non sarà altro che una scoperta di gran valore a difesa di questo recinto frammentato.

“Posso dire che da allora ho fatto il gusto a ridere di tutte le mie sciagure e d’ogni mio tormento.”

Fin dall’inizio Pascal, sulla propria identità a malapena assicurata dal suo proprio nome, pensa spacciandosi per morto, di trovare una consistenza individuale più certa come Adriano Meis, e in un certo senso prova a rifabbricarsi di nuovo partendo da zero, ma poi si accorge suo malgrado, dell’illusorietà di tale identificazione e ripiega sulla vecchia identità, che però non esiste più tanto che si ritrova ad essere un fù, il fù di quel precario se stesso che era stato Mattia Pascal. Quel fù Mattia Pascal che diventa umorista consapevole della impossibilità, di un’identità e serenità definita, nonostante le mille peripezie messe in campo per ottenerle,  e che si domanda e ci domanda ancora oggi: Fuori delle convenzioni sociali è possibile vivere la propria diversità ? La risposta è probabilmente no, e l’umorismo, che rappresenta in modo ironico la visione di questa tragedia esistenziale, ci fa da toccasana e da profonda ancora di salvataggio.

Carlo Picca

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