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Italiano “assediato”, qual è lo stato della nostra lingua oggi?

Il giornalista e scrittore italiano Stefano Bartezzaghi analizza lo stato della lingua italiana oggi, in vista dell'incontro del 26 febbraio a Gorizia sul tema de "La lingua assediata"

MILANO – Essere italiani: forme, invenzioni e prospettive di un’identità è il tema della tredicesima edizione del Festival internazionale della Storia (a Gorizia dal 25 al 28 maggio), organizzato da èStoria. Un tema centrale anche nel dibattito quotidiano dei nostri tempi ed è per questo che èStoria e il Teatro Verdi di Pordenone si propongono di contribuire a illuminare alcuni aspetti e a stimolare ulteriori interrogativi, attraverso un percorso di quattro incontri che toccherà alcuni punti focali dell’analisi identitaria, incrociando la storia con altre discipline, così da offrire al pubblico prospettive ancor più ricche e variegate. Dopo il primo appuntamento del 22 gennaio, che ha visto conversare Marcello Veneziani, Guido Crainz e Armando Torno sul tema Storia e identità d’Italia, una riflessione in cerca dei momenti cruciali nella costruzione dell’italianità, domenica 26 febbraio è la volta di Stefano Bartezzaghi e Paolo Medeossi che affronteranno il tema de La lingua assediata.  Per l’occasione, abbiamo intervistato Stefano Bartezzaghi per parlarci dello stato della lingua italiana.


Italiano “ lingua assediata” è il titolo dell’incontro: da cosa deve difendersi la nostra lingua?

Prima di rispondere vorrei chiarire che non ho pensato io il titolo dell’incontro: l’idea iniziale era quella di parlare della lingua come fattore di identità, nel quadro della storia italiana. Però è vero che spesso abbiamo la sensazione di una lingua “assediata”: assediata dall’esterno, per la pressione della globalizzazione che pare imporre l’inglese come lingua universale; ma anche erosa all’interno, da errori, sciatterie e vere e proprie volgarità, che si registrano anche in circostanze in cui un tempo (pare di ricordare) si usava un italiano corretto e formale. Si tratta di allarmi a volte esagerati, ma certo non del tutto ingiustificati.

 

Nel Friuli Venezia Giulia “ resiste” ancora il friulano anche presso le nuove generazioni, per cui da un lato abbiamo il bilinguismo dei nuovi italiani, dall’altro il bilinguisimo, se cosi si può dire, degli autoctoni. In qualche modo questo melting pot linguistico, secondo lei, potrebbe diventare un modo di arricchimento anche della nostra lingua?

Aggiungerei anche quella specie di plurilinguismo che riguarda pressoché ogni parlante: oramai possiamo dire che non c’è nessuno che non conosca almeno qualche parola d’inglese e a scuola si studiano almeno due lingue, anche se per quella via non si arriva a impararne davvero alcuna. Dalla resistenza di certi idiomi locali, all’acquisizione di lingue straniere, passando per il contatto con le lingue dei migranti e dei nuovi cittadini nascono modi espressivi a volte fortemente bizzarri. Oggi il fenomeno ha caratteristiche e cause del tutto nuove, però qualcosa del genere è sempre avvenuto: siamo sempre stati un popolo di navigatori, abbiamo subito diverse dominazioni straniere e la lingua italiana e i suoi dialetti ne recano tracce vistose. Per la lingua è certamente una forma di arricchimento; per ogni singolo parlante è una possibilità di arricchimento, se ognuno accetta che non c’è un solo modo di parlare, senza invece chiudersi in un’ostinazione protettiva di una lingua madre vissuta come totem.

 

Nell’informatica come nell’economia ma anche in altri contesti si ricorre spesso al vocabolo inglese piuttosto che usare l’omologo italiano. Una tendenza inarrestabile? O forse la antipatia generata dal duplice effetto Brexit e Trump potrebbe rallentare il fenomeno?

Non penso che eventi storici, per quanto rivelanti, come Brexit ed elezione di Trump possano avere effetti. Non possiamo saperlo, ma forse sono entrambi effetti di un fenomeno sociopolitico globale assai più profondo le cui eventuali conseguenze linguistiche potranno essere considerate solo in tempi molto lunghi. Ogni lingua viaggia nel mondo in groppa all’economia e alla cultura: l’italiano in certi periodi ha egemonizzato il lessico musicale o anche in quello sportivo (in un’intervista di qualche tempo fa, Michel Platini diceva che quando incontrava da qualche parte Diego Armando Maradona era in italiano che chiacchieravano). In inglese oggi avvengono le innovazioni tecnologiche principali, con le loro ricadute su produzioni industriali fino alla vita quotidiana. E’ perfettamente normale che le relative nomenclature tecniche siano in inglese: il problema è quando, non più nella lingua tecnica ma in quella comune, l’inglese diventa la lingua di prestigio e la si usa anche quando in italiano ci si potrebbe esprimere senza problemi.

 

Un tempo quando a parlare erano Spadolini o Berlinguer si avvertiva una certa soggezione e un distacco tra noi e loro, ora il divario si è assottigliato. E’ anche questa una forma di impoverimento della nostra lingua?

 

Il carisma politico oggi non passa più da una differenza di registro linguistico: ha successo il leader “che parla come noi”. Con il paradosso che un affarista come Donald Trump (malgrado la vistosità della sua propensione per i lussi) è stato eletto perché “più vicino alla gente”. In Italia vediamo come certe formule gergali che si diffondono anche grazie ai social network (un esempio per tutti: “ciaone”) vengono acquisite anche dal discorso politico, in parallelo però con il linguaggio criptico dei “capilista bloccati” o del “bail in” e la “voluntary  disclosure”. Un italiano corretto fa meno “rumore” di un insulto o di un’esclamazione un po’ sgangherata: è una sorta di legge del marketing comunicativo. Non mi sento di rimpiangere un passato forse troppo paludato (neppure all’epoca ero troppo contento dell’italiano dei politici), ma almeno si aveva l’impressione che qualche libro i politici di allora lo avessero letto. Oggi ancor meno di allora, i modelli linguistici vanno cercati altrove.

 

Enigmistica e/o giochi linguistici in che modo possono aiutare una lingua assediata?

 

I giochi linguistici costituiscono una galassia in cui si trova di tutto. Anche il “ciaone” di cui parlavo prima, in qualche suo modo, risponde a una forma di giocosità verbali. I giochi linguistici più strutturati, come quelli enigmistici, ci tengono in esercizio: estendono il nostro lessico, ci fanno richiamare parole che usiamo poco nel linguaggio quotidiano, ma soprattutto giocano sul modo in cui sono fatte le parole, senza farci correre subito al loro significato. Sono forme di attenzione per la lingua e si sta attenti soprattutto a ciò che si ama.

 

Alessandra Pavan

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