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I treni della felicità e la cura infinita di Giovanni Rinaldi

Che cosa sono i treni della felicità? Giovanni Rinaldi si è messo in cerca di quei bambini che, nel secondo dopoguerra, furono portati nel nord Italia per ascoltare le loro storie. A cura di Maria Pia Romano

“Non sono uno scrittore”, dice con incredibile umiltà Giovanni Rinaldi, autore del bel libro “I treni della felicità – Storie di bambini in viaggio tra due Italie”, pubblicato da Ediesse nel 2009 e poi nel 2012, con prefazione di Miriam Mafai. Non un romanzo, ma un prezioso scrigno di storie, in cui sono racchiusi i racconti di alcuni dei bambini del Sud che sono saliti su vagoni malandati per arrivare in città lontane e trovare un poco di benessere, lontano dalla miseria e della corruzione. Qualcuno di loro, come Americo, ha scelto di non ritornare nel paese d’origine.

Cosa sono i treni della felicità

Nel secondo dopoguerra migliaia di bambini da Napoli, Cassino, Roma, furono portati al Nord, a Modena, Reggio Emilia e Bologna. Un’iniziativa di solidarietà dell’Unione Donne d’Italia e del PCI, che ha salvato dall’indigenza circa 70.000 bambini. Qualche anno dopo, nel 1950 la stessa cosa avvenne a San Severo, in provincia di Foggia, e anche a Minervino, Gravina e Altamura, in provincia di Bari. Si chiamavano i treni della felicità. Giovanni Rinaldi si è messo in cerca di quei bambini, viaggiando in lungo e largo per l’Italia, e, insieme al noto regista Alessandro Piva, ha raccolto le loro testimonianze. In presa diretta. 

Al libro di Giovanni Rinaldi si è ispirata Viola Ardone

Un libro piccolo e immenso, una sorgente di storie, ognuna delle quali potrebbe diventare un romanzo. Lo sa bene la bravissima Viola Ardone, che nel settembre 2019 ha pubblicato con Einaudi Stile Libero “Il treno dei bambini”, e che abbiamo recentemente intervistato. Nel suo stupendo romanzo ci sono Amerigo e Derna.

Sono proprio loro e, anche se i luoghi non sono quelli della vicenda reale, li riconosciamo e ci commuoviamo pagina dopo pagina. Nell’edizione in nostro possesso del libro della Ardone vediamo due pagine bianche alla fine, che solo alla nona edizione (febbraio 2020) sono state riempite di nomi e riferimenti bibliografici.

Ovviamente tra questi c’è Giovanni Rinaldi. Un tributo di riconoscenza che sarebbe dovuto essere, invece, uno slancio istintivo e genuino verso chi, prima di lei, è andato a scovare queste storie magiche.

L’intervista a Giovanni Rinaldi

Un libro con una dedica commovente “a mio padre/ che mi spingeva a partire/ a mia madre/ che mi pregava di tornare”: come è nata l’idea di partire?

Come sempre nel mio lavoro di ricerca: dal racconto di un testimone, in cui spesso il ricercatore riconosce le stesse dinamiche che portano le persone a spostarsi, a migrare, a cercare altrove quello che corrisponde ai propri sogni. Quella dedica è la mia immedesimazione nelle storie dei miei protagonisti. Ho cercato storie nella mia terra e ho cercato storie più lontano.

Ogni individuo, ogni popolo, cerca una vita migliore, cerca di seguire i propri sogni, cerca di cambiare la propria condizione se insoddisfacente. Lo provano gli adulti, lo provano i bambini. C’è sempre una tensione tra il restare e il partire. E quando penso ai miei figli lontani penso ai bambini di ieri, ma anche a quelli di oggi che arrivano da altre terre. Non si cerca altro che essere felici, dalla nascita, e il viaggio è la condizione più condivisa dell’umanità.

Hai mai pianto guardando negli occhi i bambini di allora?

Le vere biblioteche dello “storico orale” sono le case in cui si viene accolti, i veri libri sono i testimoni che ti raccontano la propria vita. Spesso i frammenti di queste vite non sono mai stati raccontati ad altri, nemmeno ai propri figli. Il rapporto che si instaura è quasi sempre di empatia, emozione e tensione.

L’adulto, l’anziano che hai di fronte, raccontando la sua infanzia, torna ad essere ‘realmente’ bambino, prova sensazioni, ricordi che lo riportano indietro e li offre, spesso, accompagnandoli dalle lacrime. Difficile non rimanerne coinvolti. Capita di commuoversi, certo, e questi momenti rimangono come un legame di amicizia perenne in cui il testimone dona, non retoricamente, la propria esistenza a un altro, fino a quel momento, sconosciuto.

Hai presentato il libro nelle scuole e in molte occasioni pubbliche. Qual è la reazione di chi scopre i treni della felicità?

Siamo da sempre, tutti, affamati di favole. La sorpresa maggiore, quando lettori o studenti incontrano questa storia, è scoprire che questa che ‘sembra’ una favola è stato uno dei momenti più alti di progettazione politica e sociale che ha contribuito in modo sostanziale e non retorico alla ricostruzione di un Paese distrutto.

Una ricostruzione partecipata, di massa, di base, della stessa idea di unità nazionale in cui nord e sud diventavano solo espressioni geografiche e non fronti di opposte diffidenze. Ma più che il racconto di questa storia, l’impatto maggiore sul pubblico lo hanno avuto sempre le testimonianze dirette dei tanti testimoni che mi hanno accompagnato in questi incontri.

Le tue letture attente, le tue appassionate ricerche, il tuo amore per la condivisione, sono nutrimento vitale e costante per te. Cosa consiglieresti ai giovani in tempi di pandemia, che sono costretti a tenere le distanze?

Di imparare ad ascoltare, imparare a dare il tempo agli altri di parlare, di preoccuparsi del silenzio dei molti, dei tanti che non hanno voce. Esistono i libri, certo, li definiscono ‘nutrimento dell’anima’, ma esistono anche uomini e donne e bambini che hanno storie importanti, e spesso tremende, da raccontare.

Oggi si può comunicare con persone lontanissime con un semplice collegamento video. Si può condividere con altri il lavoro che stiamo affrontando. Nel mio lavoro di ricerca, che nel mondo anglosassone viene definito di public history, si può fare ricerca storica mettendo in comune le conoscenze, nei diversi momenti in cui si raggiungono, scambiando informazioni, comunicando con diversi mezzi scientifici, tecnologici e creativi.

Nel mio lavoro il fine non è solo il proprio risultato individuale, il prodotto da firmare, ma lo sforzo comune del lavoro collettivo e solidale. Si può lavorare sempre insieme agli altri, anche a grandi distanze. Lo permettono le tecnologie, ma è il desiderio di superarle che cambia le cose.

Di Maria Pia Romano

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