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Diego Cugia, ”I libri compensano tutto ciò che non abbiamo”

Un libro, se buono, è un volo verso un Nuovo Mondo, un viaggio in autostop con la vita di un altro. Ad affermarlo è lo scrittore e regista Diego Cugia, che ci parla del suo ultimo romanzo, ''Tango alla fine del mondo''. Al termine dell'articolo è possibile leggere un estratto del libro...
Lo scrittore e regista, autore di numerosi spettacoli di varietà e sceneggiati RAI, ci presenta il suo ultimo romanzo, “Tango alla fine del mondo”

MILANO – Un libro, se buono, è un volo verso un Nuovo Mondo, un viaggio in autostop con la vita di un altro. Ad affermarlo è lo scrittore e regista Diego Cugia, che ci parla del suo ultimo romanzo, “Tango alla fine del mondo”. Si racconta qui l’immaginaria storia del tango argentino, della sua nascita nel Bandoneón, locale del porto di Buenos Aires, a opera dell’italiano Michele Maggio e di altri emigranti. Arrivato in Argentina dalla Sicilia, dove ha lasciato la figlia Diana in balia di Don Tano, agente marittimo senza scrupoli che gli ha venduto una fazenda oltreoceano e i biglietti del piroscafo per lui e il resto della sua famiglia, Michele verrà lì travolto dalle notti trascorse tra le danze e dalla passione per una frequentatrice del locale, doña Blanca Flores, signora anticonformista dei quartieri alti.

Com’è nata l’idea del libro?
È nata dall’analogia fra l’Italia di fine Ottocento e i giorni nostri. L’Italia era da poco unita e indipendente, ma già le casse dello Stato erano in “default”. I siciliani, come oggi, scendevano in piazza per protestare contro la tassa sul focolare (l’IMU di allora) e loschi agenti marittimi, prezzolati dalle compagnie di navigazione, battevano le campagne alla ricerca delle famiglie espropriate dai loro beni per vender loro un biglietto di piroscafo per il Nuovo Mondo.

Perché la scelta del tango come soggetto, cosa la affascina di questo ballo?
La fierezza e l’arrendevolezza fuse insieme. Una guerra dei sessi in musica, in cui, alternativamente, si cede al “nemico”. La durezza e la grazia. È come se il tango ci conoscesse. Il tango sa chi siamo.

Tra i personaggi del libro, ce n’è uno che preferisce e, se sì, perché?

Diana, una diciassettenne con una forza di carattere pari a quella di un battaglione d’artiglieria. Dura eppure romantica, come il tango. Se non può avere il bene, conosce il male e sembra sposarlo, ma è lei a gestire i demoni, anche se ne sembra posseduta, e dopo che li ha domati, torna ad amare con una determinazione assoluta, commovente. Anche il suo personaggio se l’è scritto da sé, io le ho prestato il pc. E per essere una ragazza di fine Ottocento, se l’è cavata alla grande.

Ce n’è uno in cui si identifica maggiormente?
In Michele, suo padre e uno dei padri del tango. In bilico tra passato e futuro.

Quale invece è stato più difficile da delineare?
Don Tano, il “cattivo”. Un mafioso ante litteram, violento, maschilista, per il quale Diana (che ha segregato in cantina) vale quanto uno dei fazzoletti da taschino con i quali si lustra le sue sfavillanti scarpe inglesi. È stato difficile farlo diventare un cattivo “romantico”, che è il punto di svolta del personaggio, la sua originalità, ma anche l’inizio della sua caduta.

Perché ha voluto raccontare una storia di migranti? È affascinato dalle terre lontane?

Più che altro mi annoiano quelle minimaliste, quelle che iniziano con una litigata fra marito e moglie in un tinello. Si racconta quel che vorresti vivere, non quello che sai a memoria.

La scrittura e la lettura possono essere considerate un modo alternativo di viaggiare?

Sicuro. Ma il biglietto costa sempre di più, e non parlo del costo dei libri, parlo di quei voletti senz’ali che ti puoi fare su Facebook o guardando la tele. Sono facili ma non ti portano lontano. Ogni libro, all’inizio, costa un po’ di fatica. Ma dopo una trentina di pagine (se il mezzo di trasporto è buono) decolli e non ti fermi più. E quando l’hai finito hai davvero scoperto un Nuovo Mondo e sei cresciuto facendo l’autostop con la vita di un altro.

È stato difficile trovare il ritmo giusto per questa narrazione – un ritmo incalzante, che sembra avere un po’ l’andamento dei passi di tango?
No, io il tango, il flamenco e l’habanera ce l’ho nel sangue come una malattia. Per questo non ballo, ma scrivo di altri che ballano. Dall’emozione mi verrebbe un infarto.

C’è uno studio preciso per ottenere questo effetto o è venuto tutto molto naturale?
Naturale. Forse bisogna avere un po’ d’orecchio, come cantava Enzo Jannacci.

Quando ha capito che la scrittura sarebbe stata il suo mestiere e perché ha deciso di scrivere?
A dieci, dodici anni. Perché non trovavo le parole per descrivere le immense emozioni che si vivono in quegli anni. Era tutto “troppo”, la felicità come la tristezza. Scrivere mi ha salvato. Troppo tardi ti accorgi che mentre gli altri vivevano tu scrivevi di loro. Ma dev’essere così, o vivi o scrivi.

A quali bisogni rispondono per lei le storie e i libri?
A compensare tutto ciò che non abbiamo e a farci assaporare tutte le vite che avremmo voluto vivere.

1 luglio 2013

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