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Conversazione con Marina Terragni sulla maternità surrogata

Marina Terragni, già giornalista a Radio Popolare e poi collaboratrice di molte testate, fra cui Io Donna, Corriere della Sera, Via Dogana, L’Europeo, Linus, Panorama Mese, è anche autrice di saggi, tra cui Vergine e piena di grazia (Gammalibri 1981), La scomparsa delle donne (Mondadori 2007), Un gioco da ragazze (Rizzoli 2012). Di recente ha pubblicato Temporary mother. Utero in affitto e mercato dei figli (Vanda 2016).


Signora Terragni, vorrei cominciare questa intervista chiedendole di approfondire una cosa che scrive all’inizio del libro, e cioè che da molti anni riflette su tutte le implicazioni della maternità oggi, con i suoi risvolti (maternità per contratto e per soldi, come la chiama). Com’è cambiato, se è cambiato, in questi anni, il suo punto di vista sulle madri oggi?

La relazione tra la madre e il figlio è fondatrice di civiltà umana: intendo che tiene il legame al primo posto, prima di qualunque altra cosa, soprattutto prima del profitto e del mercato, che oggi si propongono come misura universale. Nelle nostre chiese e in molte delle nostre case teniamo il ritratto di una giovane donna con il suo bambino, a memoria della divinità, ovvero della stra-umanità di quella relazione. Oggi la maternità non è agevolata, non è promossa, è perfino combattuta o tenuta ai margini: si va dalla costrizione a firmare lettere di dimissioni in bianco per le giovani donne in cerca di lavoro, al congelamento degli ovociti come benefit delle aziende high-tech della Silicon Valley − in modo che le dipendenti rinviino la gravidanza sine die − all’osceno scambio tra denaro e relazione materna che si verifica nella cosiddetta maternità surrogata.

 

L’utero in affitto con la madre biologica che deve scomparire dalla vita del figlio è, lei dice, l’ultimo colpo di coda del morente patriarcato, in cui le stesse donne adottano il modello patriarcale. Immagino (e lo si legge anche nel suo saggio) che la sua posizione le sia valsa molte critiche. Vuole riassumere per i lettori di Libreriamo i termini del dibattito (anzi, dei dibattiti) che ha suscitato la sua lettura dei fenomeni sinteticamente definibili come maternità surrogata?

La grande parte delle cittadine e dei cittadini europei è certamente contraria all’utero in affitto. Ritengo possa valere anche per le cittadine e i cittadini degli Stati Uniti, anche se in alcuni stati americani la surrogacy è legale: vi sono perfino serie televisive Usa in cui la disumanità di questa pratica viene stigmatizzata. Ma la voce di queste grandi maggioranze non viene raccolta, mentre la minoranza rumorosissima dei pro trova notevole risalto. L’utero in affitto è un business con un enorme potenziale − oggi ci si attesta intorno ai 3 miliardi di dollari, dato certamente sottostimato − e le lobby delle agenzie lavorano a pieno regime: come si sa, solo una minima parte dei soldi arriva alle cosiddette madri surrogate, tutto il resto, almeno 4/5, va ad agenzie, mediatori legali, indotto “turistico” eccetera. Ovvio che se ti opponi a questo business devi aspettarti reazioni piuttosto violente, dalla censura all’accusa insensata di omofobia: molte organizzazioni lesbiche –in Italia Arcilesbica- sono mobilitate contro la surrogacy, e anche fra i gay gli interessati a sostenere questa pratica sono probabilmente una minoranza.

 

In particolare, come reagiscono gli omosessuali maschi al suo suggerimento di dare comunque una madre al bambino che desiderano avere?

Non parlerei genericamente di “omosessuali maschi”: come dicevo, ritengo che solo una minoranza tra i gay difenda in modo militante il ricorso a utero in affitto. La gran parte dei gay si tiene fuori dalla querelle. Certo, le reazioni dei militanti pro-surrogacy sono spesso scomposte: dal ban sui social network ad insulti irripetibili e violentemente misogini. In ogni caso, lo ribadisco: la questione ha a che fare con la differenza sessuale – le donne e gli uomini – e non con l’orientamento sessuale – gli omo e gli etero-. Non dimentichiamo che in 8 casi su 10 gli utenti di surrogacy sono coppie e single eterosessuali.

 

Infatti non parlavo “genericamente”, le ho chiesto “in particolare” quale fosse la reazione degli omosessuali maschi, espressione, quest’ultima, che lei mette non so perché tra virgolette ma che anche nel suo testo si incontra (per esempio in una citazione di Annapaola Concia che parla di donne omossessuali e omosessuali maschi in Germania. La tematica, per altro, è nel suo saggio affrontata e quindi la domanda non mi sembrava peregrina; si veda per esempio il brano in cui lei scrive “Se sei un maschio omosessuale e vuoi diventare padre, trovati una ragazza che vuole diventare la madre di tuo figlio”). Ma parliamo d’altro, ho letto che secondo lei la via maestra per chi non può avere figli dal proprio partner o non ha un partner sarebbe sempre l’adozione. È favorevole all’adozione in tutti i casi, cioè a prescindere dall’esistenza di una coppia (etero o omo)?

Sono favorevole a una revisione di tutta la normativa sull’adozione e  per una semplificazione delle procedure, tenendo sempre saldamente al centro l’interesse dei minori. Aprirei anche alle coppie di fatto e alle unioni civili, che finalmente abbiamo anche in Italia –oggi possono adottare solo le coppie sposate – e valuterei anche l’adozione per i single.

 

La ringrazio per il suo tempo e le sue risposte.

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