Donatella Massimilla ci conduce dietro le sbarre del Carcere San Vittore di Milano, dove da 30 anni lavora a stretto contatto con le detenute. Al San Vittore, infatti, 30 anni fa Donatella ha portato il teatro. Il suo è stato il primo laboratorio teatrale a entrare in un carcere femminile.
Chi è Donatella Massimilla
Romana di nascita e milanese d’adozione, Donatella Massimilla è uno spirito indomito, libero, incapace di assecondare il pregiudizio. Regista, attrice e drammaturga, Ambrogino d’oro nel 2018, Donatella Massimilla ha scelto il carcere come luogo di elezione per esplorare la funzione catartica del teatro. Uno spazio protetto dove le detenute hanno modo di raccontarsi ed esprimere il loro desiderio di trasformazione. Nel corso degli anni la compagnia del carcere San Vittore è diventato un riferimento, un faro per coloro che intendono fare teatro nei luoghi di reclusione. E dal carcere è persino uscito per approdare nel tempio della cultura milanese, il Piccolo Teatro Grassi, dove a novembre è andato in scena il “Decameron delle donne”, lo spettacolo da cui ha avuto origine tutto…
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L’intervista
Perché hai scelto di portare il teatro nelle carceri?
Trent’anni fa lessi un libro che mi avrebbe cambiato la vita. Era il Decameron delle donne di Julia Voznesenskaja. Nel libro, alcune donne rinchiuse in un reparto maternità e allontanate dai loro bambini per un’infezione alla pelle, raccontano, ispirandosi a Boccaccio, storie di vita e d’amore. Una metafora felice che la scrittrice russa aveva adoperato per denunciare le durissime condizione del gulag in cui a lungo era stata detenuta in Siberia. Fu questo spettacolo a portarmi dietro le sbarre di San Vittore, scoprendo cosa vuol dire prigionia, isolamento, ma anche negazione del corpo e di affettività. Infatti, dopo il debutto al Teatro Verdi di Milano, chiesi al direttore del carcere San Vittore, che allora era Luigi Pagano, di poter lavorare in carcere e in particolare con le donne. Era la prima volta che un carcere femminile si apriva al teatro.
Come fu il tuo primo impatto col carcere?
L’impatto fu forte, ma sentivo di essere nel posto giusto. Io venivo da un percorso di auto-formazione, poi alla Sapienza incontrai Grotowski e altri maestri che guardavano a un teatro povero, necessario, profondo, legato alla vita delle persone. In carcere trovai un luogo d’elezione, lo spazio protetto per coltivare in modo lento le attitudini, in quella dimensione di tempo sospeso propria del carcere.
Come andò quel primo spettacolo?
Avevo un gruppo meraviglioso con donne che andavano dai 70 ai 20 anni. Fu questo che alla fine mi fece abbandonare – almeno temporaneamente – l’idea del “Decameron delle donne” per esplorare un nuovo tema: il tema di Alice attraverso lo specchio. Attraverso lo specchio di Alice, le detenute potevano raccontare il loro vissuto, ma anche la loro voglia di trasformazione. Portammo lo spettacolo al Teatro Verdi e poi nel cortile all’aria di San Vittore, dove prese vita una delle scenografia più belle della mia carriera. Erano i panni stesi delle detenute, i panni veri delle detenute. Diventarono un simbolo e quando al Teatro Verdi a una delle attrici fu negato all’ultimo il permesso di uscita, noi stendemmo un filo sul palcoscenico con appeso il costume che avrebbe dovuto indossare. Quel filo steso divenne un simbolo di memoria.
Oltre che a costituire uno spazio di libertà, il teatro in carcere può avere anche una funzione terapeutica? Come può cambiare la vita dei detenuti?
Quello del teatro è un linguaggio trasformativo per eccellenza. Ti aiuta a liberarti dalla sofferenza che hai dentro, a esorcizzarla. Penso all’antica tragedia greca e al suo ruolo catartico, in grado di liberare la comunità dei cittadini dalle sue paure più profonde. Qualsiasi forma di rappresentazione va, infatti, a svelare l’essenza della persona e l’accompagna lungo un percorso di catarsi e liberazione. Nei luoghi di reclusione le drammaturgie nascono in modo spontaneo. A partire dai grandi drammi, come “La tempesta” di Shakespeare o “Le serve” di Genet, si arriva attraverso il vissuto delle detenute a una riscrittura talmente vera e forte che ogni detenuta diventa una drammaturgia viva, vera e incarnata.
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