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“Spencer”, il ritratto della Principessa Diana al cinema

“Spencer” è il nuovo film di Pablo Larraín e racconta della Principessa Diana e della sua personalità ribelle, emarginata ai lati della famiglia reale.

Presentato al Festival del Cinema di Venezia, “Spencer” è il nuovo film di Pablo Larraín e racconta della Principessa Diana e della sua personalità ribelle, emarginata ai lati della famiglia reale.

Vengono rappresentati e raccontati “solo tre giorni” strazianti a Sandringham – dalla vigilia di Natale a Santo Stefano – e realizzato a testa alta da una Kristen Stewart perfetta. Spencer (il cui titolo stesso sembra lanciare una sfida alla Casa di Windsor) danza tra un’eterea storia di fantasmi, un’arcaica satira sociale e uno psicodramma senza esclusione di colpi, pur rimanendo nel cuore un inno alla maternità.

Le inquietudini di Diana Spencer

Pablo Larraín, dopo il suo successo del 2016 con “Jackie”, con “Spencer” offre un ritratto audace e un po’ misterioso di una donna alla ricerca della propria identità, evocando “una favola da una vera tragedia” che, per tutta la sua invenzione drammatica, sembra notevolmente vera. 

Spencer beneficia dell’abile mano registica di Larraín.
Proprio come la protagonista, il film è allo stesso tempo familiare ed enigmatico, ricco di stimolante surrealismo espressivo, poiché immagina Diana durante una terrificante vacanza natalizia nella tenuta di Sandringham House della Regina nel 1991, quando la sua relazione con il Principe Carlo sta per giungere al capolinea. 

Con grande sgomento di Diana, tutto ciò che fa durante questo soggiorno è regolato in modo militaresco, dalle scelte sartoriali al cibo che può mangiare. Una scena in particolare rimane impressa nella mente, suggerendo l’opprimente rigidità del mondo che deve sopportare. Diana è a cena con gli altri reali, che si versano la zuppa in bocca con una simmetria robotica. La macchina da presa mostra una regina dall’aria severa dal punto di vista di Diana; poi, l’inquadratura inversa sembra restringersi intorno a lei, facendoci entrare nella sua mente in spirale. In preda al panico, rovescia le perle d’avorio che ha intorno alla gola nella sua stessa pozzanghera di verde pisello. Poi, in un momento di sconvolgente orrore – come se consumasse bulbi oculari da un brodo velenoso – inghiotte le perle intere, lottando per tutto il tempo. È una delle tante ricche metafore visive del film che trasmette la soffocante solitudine di Diana – letterale e psicologica – e un’altra indicazione, tra le altre, che Larraín non segue le regole del biopic.

Diana: tra mistero e fama 

È stato dopo Jackie, il suo biopic del 2016, altrettanto impegnativo, sulla figura della Kennedy, nata Bouvier e poi Onassis, che Pablo Larraín ha deciso di realizzare Spencer, immergendosi in un profondo processo di ricerca sulla defunta principessa. Il regista ha affermato a riguardo:

 “Penso che, culturalmente parlando, sia una delle persone più conosciute della cultura contemporanea. E allo stesso tempo è la persona più misteriosa di sempre. Questo paradosso… è semplicemente meraviglioso per il cinema e per l’arte”.

Il fatto che così tanti registi, documentaristi, commissari televisivi, autori, artisti, interpreti e compositori di teatro musicale abbiano cercato di affrontare la storia e il mito di Diana suggerisce che Larraín ha ragione. Di certo, sia per questo paradosso drammaticamente fruttuoso che per un altro motivo, Diana ha ispirato innumerevoli opere di cultura popolare, dall’arte visiva (si veda la statua di Ian Rank-Broadley di Diana, eretta all’inizio di quest’anno nella sua ex casa di Kensington Palace e che la ritrae come un essere divino) al teatro e al cinema, fino alla televisione: almeno una dozzina di attrici l’hanno ritratta sullo schermo nel corso degli anni, tra cui, con grande successo, Kristen Stewart in Spencer ed Emma Corrin nella quarta serie di The Crown.

La rappresentazione umana di un personaggio mitico

È impossibile sapere come Diana potrebbe esistere nella coscienza culturale se fosse viva oggi. Tuttavia, il fatto che sia stata effettivamente divinizzata dalla sua morte inaspettata nel 1997, come spesso accade alle icone pop scomparse troppo presto, è una questione poco discutibile. A poche ore dalla notizia della sua scomparsa, il Primo Ministro britannico Tony Blair l’aveva definita la “principessa del popolo”, e la percezione di lei sarebbe rimasta tale.

Questa percezione è stata ulteriormente reificata nella cultura popolare contemporanea dall’enfasi posta su di lei come figura tragica – una figura a cui Spencer, come ci si potrebbe aspettare dalla già citata scheda del titolo, si sposa. Ma il nucleo della tragedia è ancora soggetto a interpretazione. “Tutto ciò che un eroe tragico greco fa è fuggire dalla tragedia”, ha raccontato Larraín. “Ma così facendo, in realtà non fa altro che avvicinarsi alla tragedia. E infine affrontare la morte. Che è quello che, purtroppo, credo abbia vissuto Diana in modo metaforico. E, in modo molto pratico, stava guidando velocemente per sfuggire alla stampa quando si è schiantata a Parigi quella notte”. 

Larraín  e Steven Knight, sceneggiatore del film, hanno deliberatamente voluto rinunciare alla “tragedia in sé” – cioè agli ultimi anni, mesi e giorni di Diana e, appunto, all’incidente fatale – per qualcosa di più metaforico: “un sentimento tragico, uno stato d’animo tragico nel personaggio”, come dice lui. Spencer crea un mondo fisico e psicologico intorno alla sua eroina che è completamente immersivo, ed è crucialmente interessato a Diana come personaggio umano, non come un titolo di giornale ambulante. 

Il dolore nascosto di Lady Diana

“Tieni il rumore al minimo: They Can Hear You” recita un inquietante cartello nelle cucine di Sandringham, dove vengono consegnate grandi quantità di cibo nella parte iniziale del film. Il fatto che questo cibo debba essere consegnato come forniture militari non fa che enfatizzare la condizione di minaccia agli occhi di Diana. Dalle bilance su cui gli ospiti in festa vengono pesati per entrare e uscire da Sandringham, alle feste da incubo in cui la cineasta, direttrice della fotografia, Claire Mathon, cattura nitidamente la claustrofobia degli sguardi reali, Spencer intrappola il suo soggetto bulimico in una rete di rituali reali che la spogliano di potere e identità.

Ogni mossa di Diana è monitorata dalla stampa, le cui lenti sono più simili a microscopi; dai sarti, che cuciono le tende di Diana come per preservare qualche eredità Vittoriana; e dal maggiore Alistair Gregory (Timothy Spall), lo scudiero della Regina, che una volta era nella Guardia Nera e che ora guarda in modo che “gli altri non vedano”.

In tutto ciò, notiamo che gli abiti di Diana sono etichettati “POW” – Principessa del Galles o prigioniera di guerra?

Diana e la sua corsa verso la libertà

“Passato e presente sono la stessa cosa”, dice Diana ai suoi amati giovani figli di questo mondo rigidamente tradizionale, in cui una coccola segreta a lume di candela fornisce un raro momento di calore, aggiungendo che in questa casa “non c’è futuro”. Non sorprende che Diana desideri tornare “a casa” nella vicina Park House, un idillio d’infanzia ora sigillato dietro il filo spinato, inquietantemente avvolto dalla luce della luna e dalla nebbia.

E non sorprende neanche, dopo lacrime e momenti di estrema tensione emotiva, vedere un toccante montaggio in cui la Stewart balla attraverso i capitoli della vita di Diana, con balletti e passi di danza che si trasformano in una corsa al galoppo quando si presenta il sentore della libertà.

Alla base di tutto c’è una magnifica colonna sonora di Jonny Greenwood che accompagna e amplifica brillantemente il dramma. Dai motivi luttuosi del tema principale, con le sue malinconiche modulazioni maggiore-minore, ai suoni di un quartetto d’archi barocco che crolla in un terrore stridente, o al free-form jazz striminzito del tumulto interiore di Diana. In questo caso, la musica, non fa altro che sottolineare i cambiamenti di umore notevoli della protagonista.

 

Stella Grillo

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