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27 marzo 1973, perché Marlon Brando rifiutò la partecipazione agli Oscar

Ricostruiamo il rifiuto dell'Oscar di Marlon Brando e l'intervento della sua portavoce della serata Piccola Piuma; entrambi uniti nella lotta contro le discriminazioni e il razzismo e a favore dei diritti umani universali

Era la notte degli Oscar del 27 marzo 1973 quando l’attore Marlon Brando scelse di non partecipare alla cerimonia di premiazione degli Oscar.

Il suo fu un fermo gesto di rifiuto volto a sensibilizzare l’opinione pubblica contro il razzismo storico sofferto dai nativi americani.

Marlon Brando è sempre stato attivamente impegnato, attento e sensibile alle tematiche sociali; ricordiamo che tra le varie iniziative socio-politiche alle quali aveva dato il suo contributo, negli anni Sessanta, aveva finanziato il movimento guidato da Martin Luter King.

Marlon Brando per i diritti umani agli Oscar

L’attore, già premio Oscar per aver recitato da protagonista nel ruolo di Terry Malloy nel film del 1952 dal titolo “Fronte del porto” di Elia Kazan, sicuro della sua magistrale interpretazione di Vito Corleone nel film “Il Padrino” candidato a ben dieci statuette, approfittò della 45esima cerimonia degli Oscar per scuotere le coscienze planetarie sul fronte dei diritti civili, sulle minoranze in generale, sul trattamento riservato ai nativi americani, dall’industria cinematografica hollywoodiana, alla politica e alla cultura nel senso più ampio.

Marlon Brando, per concretizzare le sue idee e il suo atto politico, chiese la collaborazione della nativa americana, Apache e Yaqui, Sacheen Littlefeather, al secolo Marie Louise Cruz, attrice, attivista per i diritti civili e presidente del National Native American Affirmative Image Committee.

Mentre riecheggiava la colonna sonora, firmata da Nino Rota, del colossal “Il Padrino”, al Dorothy Chandler Pavillon, Liv Ullmann e Roger Moore proclamarono la vittoria di Marlon Brando, al suo posto sul palco si presentò, in abiti tradizionali apache, Sacheen Littlefeatheovvero “Piccola Piuma“, accolta da fischi e solo lontani e trattenuti applausi, la quale con un gesto soffice e leggero come una piuma ma simbolicamente potentissimo, rifiutò a nome di Marlon Brando la statuetta bramata da ogni attore, rivolgendo al pubblico presente in sala e agli spettatori da casa, queste parole:

“Buonasera. Mi chiamo Sacheen Littlefeather. Sono Apache e sono il presidente del National Native American Affirmative Image Committee.

Sono qui questa sera in rappresentanza di Marlon Brando, che mi ha chiesto di dirvi, in un lungo discorso che non posso condividere con voi al momento, a causa del tempo, ma sarò lieta di condividere con la stampa in seguito, che con molto dispiacere lui non può accettare questo premio.

Le ragioni di ciò, sono il trattamento riservato agli Indiani d’America nell’industria cinematografica e in televisione nelle repliche dei film, e anche con i recenti incontri a Wounded Knee.”

Lo sterminio denunciato da Piccola Piuma aveva visto l’eccidio di quasi trecento nativi americani di origine Sioux Lakota, massacrati dall’esercito americano nel 1890 presso la cittadina di Wounded Knee in South Dakota.

A Piccola Piuma non diedero modo di completare il suo discorso, scritto in 15 pagine, ma in quei sessanta secondi concessi lasciò il segno nella storia, contro l’emarginazione e la persecuzione di tutte le minoranze, in un messaggio di amore unificante e universale.

Un discorso di un minuto ma che rimane ancora nella memoria collettiva dopo 50 anni.

Il discorso integrale di Piccola Piuma

“Per 200 anni al popolo indiano, che lottava per la propria terra, la propria vita, le proprie famiglie e il proprio diritto di essere libero, noi abbiamo detto: “Deponete le vostre armi, amici, e noi vivremo insieme.

Solo se deporrete le armi, amici, si potrà parlare di pace e arrivare ad un accordo che vi porterà la felicità”

Quando deposero le armi, noi li assassinammo.

Noi mentimmo loro. Noi li defraudammo delle loro terre. Noi li facemmo morire di fame per mezzo di accordi fraudolenti, da noi definiti “trattati” e da noi mai rispettati.

Noi li riducemmo ad essere accattoni in un continente che aveva dato loro da vivere a memoria d’uomo. Né rendemmo poi loro giustizia, interpretando sempre in maniera distorta la Storia. Non fummo né leali né giusti.

Non ci siamo sentiti tenuti a rendere giustizia a questo popolo, né a lasciarlo vivere secondo quei trattati. E ciò in virtù di un potere che ci arroghiamo e con il quale violiamo i diritti altrui, ne prendiamo le proprietà, gli distruggiamo la vita se cercano difendere la loro terra e la loro libertà. Facciamo delle loro virtù un crimine e dei nostri misfatti una virtù.

Ma una cosa brucia i poteri di questa perversione, ed è il tremendo verdetto della Storia.

E la Storia sicuramente ci giudicherà.

Ma quale importanza ha questo per noi? Quale sorta di schizofrenia morale ci permette di strepitare per tutto il mondo che noi viviamo nella libertà, quando tutti gli assetati, affamati, umiliati giorni e notti degli ultimi anni di vita dell’Americano Indiano smentiscono questa voce?

Sembra quasi che in questa nazione il rispetto e l’amore reciproci, come principi base dei rapporti con le genti vicine, non siano funzionali ai nostri principi, e che tutto quanto si è compiuto per opera nostra sia stato solo per annichilire le speranze di altri Paesi, quelli amici e quelli nemici.

Cioè, non siamo umani e non rispettiamo le nostre stesse leggi. 

Forse in questo momento vi chiederete che diavolo tutto questo c’entri con gli Academy Awards. Perché questa donna stia lì sopra a rovinare la nostra serata, ad invadere la nostra vita con cose che non ci riguardano, e di cui non ci importa nulla.

A farci sprecare il nostro tempo e il nostro denaro, intrufolandosi nelle nostre case.

Penso che la risposta a queste domande sia che la comunità del cinema, al pari di tutte le altre, ha avuto una pesante responsabilità nel degradare l’indiano, nel fare della sua personalità una caricatura, nel descriverlo come un selvaggio, ostile e demoniaco.

È davvero duro per i bambini crescere in questo mondo.

Quando i bambini indiani guardano i film alla televisione, e vedono il loro popolo ritratto come lo è nei film, le loro mente sono offese in modi ci cui non riusciamo a renderci conto.

Di recente sono stati fatti pochi, incerti, passi per modificare questa situazione.

Ma troppo incerti e troppo pochi. Pertanto io in quanto membro di questa comunità professionale, in quanto cittadino degli Stati Uniti, non mi sento di accettare un Oscar questa sera.

Penso che i premi in questo Paese, in questo momento, non possono essere dati né ricevuti finché la condizione dell’americano indiano non sarà radicalmente mutata.

Se non siamo i tutori  di nostro fratello, almeno facciano in modo di non esserne i boia.

Avrei voluto essere qui stasera per parlarvi direttamente, ma ho ritenuto di essere forse più utile a Wounded Knee, a prevenire una pace disonorevole “finché i fiumi scorreranno e l’erba crescerà”.

Spero che non riterrete questa una brutale interruzione, bensì un serio sforzo di attirare l’attenzione su un popolo, in rapporto al quale si determinerà se questo Paese ha il diritto o no di affermare di vivere negli inalienabili diritti di tutto il popolo a rimanere libero e indipendente nelle terre che hanno nutrito la sua vita a memoria d’uomo.

Grazie della vostra benevolenza e della vostra cortesia verso Miss Piccola Piuma.

Grazie, e buona notte»

50 anni dopo le le scuse dell’Academy

Ci sono voluti 50 anni prima che l’Academy rivolgesse le sue scuse a Piccola Piuma dopo il trattamento riservatole nella notte degli Oscar.

Con queste parole l’ex presidente dell’Accademia David Rubin, in una lettera destinata a Piccola Piuma, porge le scuse: “Gli abusi che hai subito per il tuo discorso sono stati ingiustificati e totalmente inappropriati.

La reazione di Piccola Piuma

La saggezza antica che da sempre contraddistingue i nativi americani, la ritroviamo anche nella risposta pacata e ironica che diede Piccola Piuma successivamente aver ricevuto la lettera di scuse:

“In merito alle scuse dell’Academy noi indiani siamo un popolo molto paziente.  Sono passati solo 50 anni!

Di questi tempi bisogna mantenere il senso dell’umorismo.

È il nostro metodo di sopravvivenza”

photocredits: Mlang.Finn

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