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I versi di Fernando Pessoa sul valore di conoscere sé stessi

Leggiamo assieme questi versi, che compongono la poesia "Doppio di Campane" in cui il poeta Fernando Pessoa è stanco della sua esistenza.

Tra le tante voci che hanno segnato la poesia del Novecento, quella di Fernando Pessoa emerge per la sua capacità di moltiplicarsi e frammentarsi in una galassia di eteronimi, ognuno portatore di una diversa visione del mondo. Ma anche al di fuori dei suoi alter ego, nella poesia firmata col suo nome “autentico”, Pessoa riesce a coniugare profondità filosofica, inquietudine esistenziale e una dolce, quasi rarefatta malinconia. I versi tratti dalla poesia Doppio di Campane costituiscono uno dei passaggi più toccanti di questa poetica dell’estraneità.

«Ho messo il mio cuore
nel cavo della mia mano.
Lo guardavo come chi guarda
dei grani di sabbia o una foglia.
Lo guardavo pavido e assorto
come chi sa di essere morto;
e la mia anima era commossa
dal sogno, non dalla vita»

Il cuore come oggetto estrinseco all’uomo, nei versi di Fernando Pessoa

Apriamo l’analisi con la straordinaria immagine iniziale: «Ho messo il mio cuore / nel cavo della mia mano». È un gesto impossibile, ma potente. Pessoa, con la consueta forza visionaria, compie un atto poetico di auto-espropriazione. Il cuore, simbolo dell’emozione, della vita, della vitalità pulsante, viene separato dal corpo e reso oggetto. Mettere il proprio cuore nella mano significa renderlo visibile, manipolabile, contemplabile: un’emozione privata, segreta, diventa qui materia esterna, da osservare come fosse cosa d’altri.

Questa distanza tra l’io e la propria interiorità è uno dei nodi centrali della poetica pessoana. Il soggetto si guarda vivere, si osserva sentire, come se fosse fuori da sé. In questo atto, che richiama anche un certo ascetismo simbolico, si esprime una perdita di contatto con l’immediatezza del vivere. Il cuore non è più dentro il petto, ma nella mano: visibile, sì, ma anche spoglio, fragile, forse già esanime.

Sabbia e foglia: l’effimero

La seconda immagine, «Lo guardavo come chi guarda / dei grani di sabbia o una foglia», arricchisce di significato questa dissociazione. Pessoa paragona il proprio cuore a elementi naturali, semplici, ma evocativi di fragilità ed effimerità. La sabbia scivola via, è mobile, non può essere afferrata. La foglia è leggera, destinata a cadere, a disfarsi. Così il cuore diventa qualcosa che esiste nel tempo breve di un momento, privo di solidità, precario.

L’atteggiamento con cui il poeta guarda il cuore è dunque già distaccato, privo di pathos diretto. È lo sguardo di chi ha accettato che anche il proprio sentire più intimo sia fatto della stessa materia friabile del mondo. In questo gesto c’è un’estetica del disincanto: non c’è dramma, ma una serena, quasi scientifica contemplazione dell’impermanenza.

L’anima addormentata

Ma la strofa successiva introduce un’ombra più cupa: «Lo guardavo pavido e assorto / come chi sa di essere morto». Qui la paura entra in scena. Il poeta non guarda il cuore con indifferenza, bensì con timore. È la paura del morto che sa di esserlo, un’angoscia consapevole. Questa morte non è necessariamente biologica, ma esistenziale: è la morte della sensibilità autentica, della partecipazione viva al mondo. Pessoa si descrive come uno che ha oltrepassato la soglia, e da quella soglia osserva la vita come un ricordo, o un sogno.

Questa paura, però, non è gridata: è assorta. C’è una compostezza tragica in questo dolore che non esplode, ma resta dentro. È l’assorbimento nel pensiero, nella contemplazione, nel sogno.

Commosso dal sogno, non dalla vita

Ed eccoci al verso finale: «e la mia anima era commossa / dal sogno, non dalla vita». Qui si compie la rivelazione. L’anima non si commuove per la vita reale, per gli accadimenti concreti, per le emozioni vissute nel presente. Essa è scossa, turbata, ispirata solo dal sogno. La vita perde consistenza, perde peso. È il sogno — come rifugio, come possibilità, come immaginazione — a diventare l’unica fonte di commozione.

In un certo senso, Pessoa qui afferma una verità personale e universale. Per molti, la vita vissuta è troppo grezza, troppo dolorosa o troppo banale per essere sentita profondamente. È solo nel sogno, nella dimensione interiore, ideale, che l’anima riesce a vibrare. Questa poetica del sogno, che percorre tutta l’opera di Pessoa, si radica in una convinzione profonda: l’esistenza vera, per alcuni spiriti, è quella interiore, non quella empirica.

Una poesia dell’anima scissa

La poesia di Pessoa è sempre una poesia di fratture. Frattura tra l’io e il mondo, tra l’anima e il corpo, tra il sogno e la realtà. In Doppio di Campane, questa scissione è messa in scena con immagini di estrema semplicità e precisione simbolica. Il cuore nella mano, la foglia, la sabbia, la paura del morto, il sogno commovente: tutto converge verso una medesima diagnosi dell’anima moderna, che non riesce più a sentire la vita, ma solo la sua proiezione.

Il cuore dell’uomo moderno

In questi versi, Pessoa parla del cuore, ma non come simbolo romantico, bensì come specchio di una condizione: la dissociazione dell’io nella modernità. Il cuore diventa oggetto, il sentimento si rarefà, la vita perde spessore. Resta il sogno, come unica zona di commozione. Eppure, in questa apparente disperazione, si apre uno spazio per la bellezza: la bellezza di chi, pur consapevole della morte interiore, continua a guardare il proprio cuore con meraviglia. Come chi contempla una foglia, fragile ma piena di senso.

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