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“Orlo” (1963) di Sylvia Plath, potente poesia di denuncia alla violenza sulle donne

In occasione del 25 novembre, la Giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne, scopri “Orlo”, l’ultima poesia di Sylvia Plath prima di morire.

Orlo di Sylvia Plath è una poesia che vogliamo dedicare a tutte le donne nessuna esclusa. È la poesia che la poetessa statunitense scrisse quel maledetto il 5 febbraio 1963, sei giorni prima del giorno in cui decise di suicidarsi (11 febbraio 1963), aveva solo 31 anni, per le violenze psicologiche e affettive da parte del marito.

Una poesia che vogliamo condividere per offrire il nostro piccolissimo a favore del 25 novembre, la Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne, istituita dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 1999.

Le immagini che Sylvia Plath sceglie sono molto forti, e mostrano come la poetessa non riesca a vedere una via d’uscita alla violenza riservata alle donne: i figli paragonati ai serpenti, la toga che rimanda alla perfezione dell’antichità greca ma anche al sudario della morte e tutti i termini legati al campo lessicale del ciclo mestruale, con il sangue, la luna, gli odori. Tutto concorre a creare un profondo contrasto fra ciò che ci si aspetta da una donna e ciò che ella vorrebbe essere, e non potrà mai essere.

Sylvia Plath trascorre larga parte della sua esistenza affetta da forti crisi depressive. Il culmine arriva con il marito, Ted Hughes: dopo un periodo di matrimonio felice e spensierato, infatti, arrivano i primi problemi. Hughes tradisce la moglie con una conoscenza in comune, e da alcune testimonianze sembra anche che l’uomo usi violenza nei confronti di Sylvia Plath. L’ultima crisi depressiva non lascia scampo alla scrittrice che, dopo aver preparato la colazione per i figli, si lascia morire servendosi del gas del forno.

Leggiamo questa splendida poesia di Silvia Plath per cogliere il messaggio che la poetessa volle lasciare va tutte le donne.

Orlo di Sylvia Plath

La donna è perfezione.
Il suo morto

Corpo ha il sorriso del compimento,
un’illusione di greca necessità

Scorre lungo i drappeggi della sua toga,
I suoi nudi

Piedi sembran dire:
Abbiamo tanto camminato, è finita.

Si sono rannicchiati i morti infanti ciascuno
Come un bianco serpente a una delle due piccole

Tazze del latte, ora vuote.
Lei li ha ripiegati

Dentro il suo corpo come petali
Di una rosa richiusa quando il giardino

S’intorpidisce e sanguinano odori
Dalle dolci, profonde gole del fiore della notte.

Niente di cui rattristarsi ha la luna
Che guarda dal suo cappuccio d’osso.

A certe cose è ormai abituata.
Crepitano, si tendono le sue macchie nere.

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Edge di Silvia Plath

The woman is perfected.
Her dead

Body wears the smile of accomplishment,
The illusion of a Greek necessity

Flows in the scrolls of her toga,
Her bare

Feet seem to be saying:
We have come so far, it is over.

Each dead child coiled, a white serpent,
One at each little

Pitcher of milk, now empty.
She has folded

Them back into her body as petals
Of a rose close when the garden

Stiffens and odors bleed
From the sweet, deep throats of the night flower.

The moon has nothing to be sad about,
Staring from her hood of bone.

She is used to this sort of thing.
Her blacks crackle and drag.

Orlo una poesia che dà voce alla sofferenza di tutte le donne 

Orlo è una poesia di Sylvia Plath che è stata letta da molti critici (anche se non da tutti) come un riflesso della sua disperazione e dei suoi pensieri suicidi. Il testo raffigura una scena inquietante in cui una madre e i suoi due figli giacciono morti sotto una luna fissa e indifferente.

Il riassunto della poesia

Sebbene il testo della poesia affermi che le morti non sono “nulla di cui rattristarsi”, almeno dal punto di vista della luna,  gli accenni alla stanchezza, alla depressione e ai conflitti familiari conferiscono alla poesia un’atmosfera inquietante e tragica. “Edge” entro a far parte della raccolta postuma Ariel di Sylvia Plath, pubblicata per la prima volta nel 1965.

Nella poesia, Sylvia Plath ci racconta che la donna ha raggiunto uno stato di perfezione, la morte. Il suo cadavere sorride come se fosse orgoglioso del risultato raggiunto. La sua veste fluente la fa sembrare come se fosse destinata a morire, come un personaggio della tragedia greca. I suoi piedi nudi sembrano felici di aver terminato il loro lungo viaggio. Due bambini morti sono raggomitolati come serpenti bianchi sui suoi seni, il cui latte si è ormai prosciugato.

Ha ripreso i suoi figli in se stessa, come una rosa ripiega i suoi petali quando un giardino si irrigidisce per il freddo, e di notte dal profondo dei fiori emergono profumi deliziosi. La luna non ha motivo di dolersi, mentre guarda in basso come un volto coperto di ossa. Ha visto questo tipo di eventi molte volte. Trascina l’oscurità come un tessuto scoppiettante.

L’inquietante scena di una morte annunciata

Edge, questo il titolo originale della poesia, raffigura una scena inquietante in cui una donna morta giace con un bambino morto al seno. Sebbene la donna assomigli a un personaggio dell’antica tragedia greca, la poesia ritrae il suo apparente suicidio come una scelta, un sollievo e persino per lei, un “traguardo”.

Allo stesso tempo, però, lascia la morte dei bambini ambigua e accenna ad altri possibili fattori riguardo al gesto della donna, tra questi la stanchezza e l’indifferenza del mondo.

Nel complesso, la poesia tratta il suicidio come un fatto comune e forse persino naturale, ma allo stesso tempo in modo misterioso. Lei appare serena, ma sottilmente conflittuale, nell’illustrare il tipo di esperienze, impulsi e circostanze oscure che possono spingere qualcuno a oltrepassare l’“orlo”, il limite, il margine.

La poesia descrive una scena con tre corpi morti, ma rappresentata come una scena di serenità e sollievo. L’autrice sostiene, o meglio crede di “essere perfetta” nell’atto di morire. Ella “indossa il sorriso del compimento”, come se fosse orgogliosa di aver raggiunto la fine.

La parola “compimento” lascia anche intendere che potrebbe aver ucciso se stessa e/o i suoi figli deliberatamente. I suoi “piedi nudi sembrano dire: Abbiamo fatto tanta strada, è finita”, suggerendo che ciò che è ‘finito’ è un viaggio lungo e difficile.

Questo viaggio può essere letterale o metaforico; può essere la vita stessa o una serie di sfide che precedono la morte. In ogni caso, il suo corpo sembra fisicamente sollevato di aver terminato le sue prove.

La poesia inquadra anche la morte dei bambini, in una certa misura, in termini sereni e gentili. Sylvia Plath scrive che la donna “li ha ripiegati nel suo corpo come petali di una rosa”. Emerge il gesto protettivo e naturale della madre. Se la donna ha ucciso i suoi figli, è implicito che lo ha fatto per un istinto materno protettivo.

Si percepisce in modo chiaro che la causa di queste morti sia stata un conflitto e la relativa sofferenza vissuta. L’autrice collega la morte della donna alle immagini delle antiche tragedie greche che rappresentano la morte e il destino. L’autrice descrive ancora “Ogni bambino morto” come “arrotolato” come “un serpente bianco” sul petto della madre.

Il riferimento è alla “Cleopatra” di William Shakespeare, che si uccide con un serpente velenoso che le morde il seno. L’autrice vuole lasciare intendere che la donna possa essersi sentita profondamente combattuta dalla maternità, o addirittura che la maternità possa aver in parte causato la sua morte.

I seni della donna sono descritti come “tazze di latte, ora vuote” perché è morta, ma questa immagine suggerisce anche che forse non aveva più nulla da dare prima della morte. In altre parole, potrebbe essere stata malata o esausta.

L’immagine della luna che guarda freddamente suggerisce che l’indifferenza del mondo può aver in parte spinto la donna al suicidio. La poesia si conclude con un’osservazione morbosa, che sembra suggerire che la donna sia morta in un’atmosfera psicologica di depressione morbosa.

C’è da sottolineare che le culture antiche tradizionalmente associavano la luna alla “follia” o a gravi problemi di salute mentale.

Così, mentre l’autrice nega che ci sia qualcosa di “triste” nella scena, il lettore è invitato a pensarla diversamente. Ciò che può sembrare banale per la luna, la natura, sembra essere una tragedia dal punto di vista umano, anche se la donna ha provato un po’ di sollievo o di “realizzazione” alla fine.

Solo la morte può offrire una donna perfezionata 

Orlo sembra voler affermare che solo attraverso la morte la donna si è “perfezionata”, è diventata perfetta. La poetessa statunitense sottolinea ironicamente gli standard di un mondo dominato dagli uomini che trova tutte le donne vive in qualche modo “difettose”, non perfette come gli uomini vorrebbero.

La poesia sembra anche alludere alle eroine classiche delle tragedie antiche e soprattutto quelle shakespeariane che hanno ucciso se stesse o i loro figli. Indirettamente, quindi, la poesia evidenzia la femminilità e la maternità come fonti di intense pressioni e conflitti.

Sebbene il poema tenti di riscattare la donna attraverso l’amore materno, in realtà descrive l’esperienza della maternità e della femminilità come estenuante, difficile da vivere e supportare, soprattutto quando l’uomo che ti dovrebbe proteggere ti tradisce, ti abbandona, ti lascia sola a vivere la sofferenza.

Per lui non era così perfetta, ma la morte permetterà di resettare ogni cosa e potrà finalmente ad ambire ad essere accolta e protetta.

La descrizione della donna “perfetta”, che sembra aver “compiuto” il suicidio, riflette le straordinarie sfide dell’essere una donna o una madre viva. L’affermazione che “la donna è perfezione” sembra criticare l’idea misogina che l’unica donna perfetta sia una donna morta.

Potrebbe anche avanzare l’idea femminista che le donne siano tenute a standard impossibili e punitivi, standard che possono letteralmente morire nel tentativo di soddisfare.

L’uso di “perfezionata” piuttosto che di “perfetta” paragona implicitamente la donna a un’opera d’arte, a un bell’oggetto o a qualcosa su cui si è agito. La poesia potrebbe suggerire che le donne in generale lottano per ottenere un’autonomia e sono spesso trattate come oggetti in una società a loro avversa.

C’è chi interpreta la poesia come un’allusione specifica al mito greco di Medea, una donna disprezzata che uccide i suoi due figli per vendicarsi dell’infedeltà del marito. L’allusione a Medea implicherebbe che la donna della poesia fosse arrabbiata, ferita, ecc. Alcuni biografi leggono la poesia come un’allusione al fatto che Sylvia Plath meditasse di uccidere i propri figli, anche se in realtà non andò a finire così, ma questo non lo sapremo mai.

La poesia fa riferimento come dicevamo prima anche ad Antonio e Cleopatra di William Shakespeare, la cui eroina tragica si uccide applicandosi un serpente velenoso, che chiama “il mio bambino” sul seno. Poiché Cleopatra si suicida sotto costrizione, è implicito che anche la donna della poesia di Plath stesse affrontando forti pressioni, forse dovute alla maternità. La biografia di Sylvia Plath racconta che ha dovuto affrontare forti pressioni come madre single da poco, comprese importanti lotte per la salute mentale.

Si comprende perfettamente che il poema evidenzia una terribile crisi familiare. Una madre e i suoi due figli sono morti tutti insieme in seguito a una prova che è finalmente “finita”.

È chiaro che leggendo la poesia e paragonandola alla vita di milioni di donne, tali tragedie sono fin troppo comuni. Nella poesia la madre e i suoi figli sono assimilati a una rosa, che è il simbolo tradizionale delle donne, che si ripiega quando un “giardino si intorpidisce, presumibilmente a causa del freddo della notte o dell’inverno.

In altre parole, sembra rappresentare la sofferenza femminile come parte dell’ordine naturale delle cose. La poesia ritrae anche la luna , simbolo della femminilità e/o della natura stessa, come una figura femminile che osserva la scena della morte senza sorpresa o emozione.

L’autrice insiste sul fatto che “la luna non ha nulla di cui essere triste” e che “è abituata a questo genere di cose”. Dal punto di vista della natura femminilizzata, o dell’universo più ampio, il dolore e la morte delle donne umane sono troppo comuni per addolorarsi.

Ciò che appare chiaro è che Edge può essere considerata come una lettera d’addio di Sylvia Plath. È il grido disperato di una donna che soffre per ciò che deve subire dalla vita. Si è ritrovata nella dura situazione di dover stare dietro ad un marito che la voleva perfetta e lei, forse anche a causa dell’incapacità di saper gestire la maternità, non ha voluto accettare di dover subire il dolore di una vita fatta di sofferenza e dolore.

Sylvia Plath

Sylvia Plath nasce a Boston il 27 ottobre del 1932. Dimostra passione e talento precoci per la scrittura, pubblicando la sua prima poesia all’età di otto anni. Nello stesso periodo, il padre subisce l’amputazione di una gamba e muore, in seguito alle complicazioni di un diabete mellito diagnosticato troppo tardi, il 5 ottobre 1940.

La perdita del padre lascia un segno indelebile nella vita della poetessa. Sylvia Plath soffre durante tutta la sua vita adulta di una grave forma di depressione che si alterna a periodi di intensa vitalità. Le sue poesie sono intrise, infatti, di elementi cupi e destabilizzanti frammisti a momenti di sincera meraviglia e forte dinamismo.

Il 26 Agosto del 1953 Sylvia Plath tenta per la prima volta il suicidio. A Cambridge, conosce il poeta inglese Ted Hughes, che sposa nel 1956. Dall’unione dei due autori nascono due figli, ma la separazione è dietro l’angolo: Sylvia e Ted divorziano infatti pochi anni dopo le nozze, nel 1962. Dalle testimonianze rinvenute, sembra che Hughes avesse una relazione extraconiugale con la moglie di un suo amico e che, inoltre, avesse assunto diverse volte un comportamento molto violento nei confronti di Plath.

Sylvia Plath muore poco dopo il divorzio con il marito. Si suicida l’11 febbraio del 1963: dopo aver preparato la colazione per i figli, si chiude in cucina e mette la testa nel forno a gas. Alcuni studiosi sostengono che la poetessa non avesse veramente intenzione di togliersi la vita, ma di attirare l’attenzione per chiedere un aiuto disperato.

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