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L’infanzia e la giovinezza di Giacomo Leopardi

Lo scrittore Dario Pisano ci racconta aneddoti e curiosità legati all'infanzia e la giovinezza di Giacomo Leopardi che non tutti conoscono

A 27 anni Giacomo Leopardi descrive così le sue origini all’interno del proemio di “Storia di un’anima“, che avrebbe dovuto essere la sua autobiografia:

«Incomincio a scrivere la mia vita, innanzi di sapere se io farò mai cosa alcuna per la quale debbano gli uomini desiderare di avere notizia dell’essere, dei costumi e dei casi miei. Anzi, al contrario di quello che io aveva creduto sempre per lo passato, tengo oramai per fermo di non avere a lasciar di me in sulla terra alcun vestigio durevole […]

Ne pure i casi che narrerò del mio spirito, credo già che sieno né debbono parer straordinari; ma pure con tutto questo mi persuado che agli uomini non debba essere discara né forse anche inutile questa mia storia, non essendo né senza piacere né senza frutto l’intendere [..] le interne vicende di un qualsivoglia animo umano»
«Del mio nascimento dirò solo […] che io nacqui di famiglia nobile in una città ignobile dell’Italia».

I guai finanziari del signor Monaldo

Una delle aspettative del signor Monaldo Leopardi, giovane nobile recanatese, era quella di veder comparire nel mondo un antigalileo, capace di «dare alla terra l’antico onore, rimettendola al centro dell’universo.». Era un uomo devotissimo, che pure – compiuti 18 anni – cominciò a sperperare il proprio patrimonio in libri e ragazze. Quando sposò sua cugina, la marchesa Adelaide Antici, era reduce da un drammatico crack finanziario.

Nei primi mesi di matrimonio apparve chiaro che i debiti di Monaldo erano davvero eccessivi, il baratro era inevitabile; questi fu interdetto legalmente, e costretto a versare nell’arco di un quarantennio una cifra annua pari ai suoi introiti. La consorte decise così di assumere la direzione degli affari domestici e impose a figli e marito un regime quotidiano estremamente parsimonioso, fatto di durissime, inverosimili rinunce. Racconterà Monaldo nella sua autobiografia che per concedersi il piacere di un caffè al bar, spesso doveva vendere prodotti della campagna; una volta addirittura – in pieno inverno – osò comprare una maglia di lana, subendo un rimprovero memorabile dalla moglie.

Il loro secondo figlio Carlo scriverà: «Il nostro patrimonio fu molto e lungamente dissestato. La mamma, diligentissima della famiglia, con grandi risparmi ed economie finì di rintegrarlo e liberarlo tutto circa 10 anni fa. Ecco la cagion vera di non poter toccar denaro né Giacomo, né io, né nostro padre».

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I giochi di Giacomo Leopardi

«Le più antiche reminescenze sono in noi lei più vive e durevoli […] La mia prima ricordanza è di alcune pere moscardelle che io vedeva e sentiva nominare al tempo stesso». «Mi dicono che io da fanciullino di tre o quattro anni, stava sempre dietro a questa o quella persona perché mi raccontasse delle favole. E mi ricordo ancor io che in poco maggior età, era innamorato dei racconti, e del meraviglioso che si percepisce coll’udito, o colla lettura (giacché seppi leggere, ed amai di leggere assai presto)».

«I bambini vedono il tutto nel nulla; gli uomini, il nulla nel tutto»:

Il gioco preferito del piccolo Giacomo si svolgeva nel giardino: consisteva nel prendere un carrettino che serviva per trasportare arance e limoni e trasformarlo in un carro da guerra. Si chiamava “gioco del trionfo”: lui sopra, incoronato dall’alloro, era il condottiero vittorioso con intorno schiavi pronti a omaggiarlo, a umiliarsi al suo cospetto. Scriverà nello Zibaldone: «Quando io era fanciullo, diceva talvolta a qualcuno dei miei fratellini, tu mi farai da cavallo. E legatolo a una cordicella, lo venia conducendo come per la briglia e toccandolo con una frusta. E quelli mi lasciavano fare con diletto». Proprio il fratello Carlo scriverà che « Nei giuochi e nelle finte battaglie romane, che noi fratelli facevamo nel giardino, egli si metteva sempre primo. Ricordo ancora i pugni sonori che mi dava ».

La madre di Leopardi

«Lo sguardo di nostra madre ci accompagnava sempre: era l’unica sua carezza».

La sorella Paolina la descriverà come «una persona ultrarigorista, un vero eccesso di perfezione cristiana, la quale non potete immaginare quanta dose di severità metta in tutti i dettagli della vita domestica»; «noi ottenevamo tutto da papà, ch’è proprio buonissimo, di ottimo cuore, e ci vuole molto bene, ma gli manca il coraggio di affrontare il muso di mamà, anche per una cosa lievissima».

La marchesa è dunque una perfetta incarnazione della severità e del rigorismo, tormentata ogni minuto dal pensiero della salvezza dell’anima; era un po’ una caratteristica della sua famiglia; aveva infatti una sorella che era diventata suora di clausura ed era impazzita al punto da diventare la barzelletta preferita dei recanatesi, tra i quali correva un curioso aneddoto: Suor Margherita aveva una volta inviato ad un Monsignore alcune paste avvolte in capi del proprio vestiario molto intimi e poco puliti.

La marchesa Adelaide era una presenza incombente nella vita dei figli, al punto da nascondersi dietro il confessionale per origliare la prima confessione di Giacomo, in modo da scoprire i suoi peccati.

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Sentite cosa scrive il figlio della madre: « Questa non solamente non compiangeva quei genitori che perdevano i loro figli bambini, ma gli invidiava intimamente e sinceramente, perché questi eran volati al paradiso senza pericoli, e avean liberato i genitori dall’incomodo di mantenerli. Trovandosi più volte in pericolo di perdere i suoi figli nella stessa età, non pregava Dio che li facesse morire, perché la religione non lo permette, ma gioiva cordialmente; e vedendo piangere o affligersi il marito, si rannicchiava in se stessa, e provava un vero e sensibile dispetto.

Era esattissima negli uffizi che rendeva a quei poveri malati, ma nel fondo dell’anima desiderava che fossero inutili, ed arrivò a confessare che il solo timore che provava nell’interrogare o consultare i medici, era di sentire opinioni o ragguagli di miglioramento. Vedendo nei malati qualche segno di morte vicina, sentiva una gioia profonda (che si sforzava di dissimulare solamente con quelli che la condannavano); e il giorno della loro morte, se accadeva, era per lei un giorno allegro ed ameno, né sapeva comprendere come il marito fosse poco savio da attristarsene.

Considerava la bellezza come una vera disgrazia, e vedendo i suoi figli brutti o deformi, ne ringraziava Dio, non per eroismo, ma di tutta voglia. Non procurava in nessun modo di aiutarli a nascondere i loro difetti, anzi pretendeva che in vista di essi, rinunziassero interamente alla vita nella loro prima gioventù; se resistevano, se cercavano il contrario, se vi riuscivano in qualche minima parte, n’era indispettita, scemava quanto poteva colle parole e coll’opinion sua i loro successi (tanto de’ brutti quanto de’ belli, perché n’ebbe molti), e non lasciava passare, anzi cercava studiosamente l’occasione di rinfacciar loro, e far loro ben conoscere i loro difetti, e le conseguenze che ne dovevano aspettare, e persuaderli della loro inevitabile miseria, con una veracità spietata e feroce.

Crescere in mezzo ai libri

La bibliofilia di Monaldo Leopardi portò questi a spendere una larghissima parte delle sue finanze nell’acquisto di intere biblioteche provenienti dai monasteri soppressi dalla truppe napoleoniche scese in Italia. Passava molto tempo al porto di Ancona dove le navi francesi erano piene di libri provenienti dai monasteri devastati di Corfù. Scaffale dopo scaffale, allestì una biblioteca immensa, una mescolanza impressionante di « libri utili e inutili: grammatiche, dizionari, glosse, commenti, orazioni, dissertazioni, trattati di erudizione greca, ebraica, latina, sacra e profana, cose originali e imitazioni, sommi e mediocri, tutto commisti. »

Qui Giacomo trascorre l’adolescenza, travolto da una impetuosa dedizione ai libri: impara da autodidatta il greco e l’ebraico, compone una storia dell’astronomia, scrive i primi saggi di filologia greca, traguardando precocemente risultati sbalorditivi. In quello ore di studio matto e disperatissimo era visitato da una strana compassione «verso coloro che io vedeva non avrebbono avuto fama.», la maggior parte degli uomini dunque, il cui passaggio sulla terra è un frego effimero, subito cancellato sulla lavagna del tempo.

Scrisse in una sua poesia: «Sento che ad alte imprese il cor mi chiama. / A morir non son nato, eterno io sono.» Chissà se mentre sfogliava e annotava avidamente tutti quei volumi, mentre inchiostrava il bianco della pagina sognando una gloria imperitura, pensava a quel carretto in giardino pieno di arance e limoni, nel quale amava salire da bambino immaginandosi un condottiero vittorioso, festeggiato da tutti gli uomini, sul punto di varcare la soglia di un luminoso, trionfale domani.

Le aspettative di Giacomo Leopardi

« Farò mai niente di grande? Neanche adesso che mi vo sbattendo in questa gabbia come un orso? […] Certo che non voglio vivere tra la turba; la mediocrità mi fa una paura mortale; ma io voglio alzarmi e farmi grande ed eterno coll’ingegno e collo studio: impresa ardua e forse vanissima per me, ma agli uomini bisogna non disanimarsi né disperare di loro stessi […]

Io ho grandissimo, forse smisurato e insolente desiderio di gloria […] Che cos’è in Recanati di bello? Che l’uomo si curi di vedere o di imparare? Niente. Ora Iddio ha fatto tanto bello questo nostro mondo, tante cose belle ci hanno fatto gli uomini, tanti uomini ci sono che chi non è insensato arde di vedere e di conoscere, la terra è piena di meraviglie, ed io di dieciott’anni potrò dire, in questa caverna vivrò e morrò dove sono nato? Le pare che questi desideri si possono frenare? Che siano ingiusti, soverchi, sterminati? Che sia pazzia il contentarsi di non veder nulla, il non contentarsi di Recanati? [..] A tutto questo aggiunga l’ostinata nera orrenda barbara malinconia che mi lima e mi divora, e collo studio s’alimenta, e senza studio s’accresce. […] Unico divertimento in Recanati è lo studio: unico divertimento è quello che mi ammazza.».

Dario Pisano

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