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Giuseppe Di Matteo, storia del figlio di un pentito di mafia ucciso a 15 anni

Per la campagna “A ricordare e riveder le stelle”, oggi conosciamo la storia di Giuseppe di Matteo, il figlio del pentito Santino ucciso per ordine di Giovanni Brusca all'età di 15 anni.

I ragazzi dell’Istituto Superiore G. La Pira di Pozzallo sono i protagonisti della campagna “A ricordare e riveder le stelle”. L’iniziativa, che rievoca Dante Alighieri, ha visto i ragazzi adottare ognuno una stella, ovvero il nome di una vittima della mafia, fare una ricerca e ricostruirne la storia con tutti i sentimenti che può evocare e conoscere meglio queste biografie per molti sconosciute. Oggi conosciamo la storia di Giuseppe Di Matteo, il figlio del pentito Santino ucciso per ordine di Giovanni Brusca all’età di 15 anni.

La storia di Giuseppe di Matteo

Giuseppe di Matteo ucciso nel 1996 per ordine di Giovanni Brusca, perché figlio del pentito Santino. Giovanni Brusca, membro di rilievo di Cosa Nostra, capo del mandamento di San Giuseppe Jato ed esponente di spicco del cartello dei Corleonesi, soprannominato “scannacristiani” oppure “u verru” (il perco), fu colui che quattro anni prima, nel 1992, spinse il tasto del radiocomando che fece esplodere le auto del giudice Falcone e della scorta, fu l’esecutore materiale della strage di Capaci.

Nella dichiarazione tratta dal libro “Ho ucciso Giovanni Falcone” di Saverio Lodato, Giovanni Brusca dice: “Ho ucciso Giovanni Falcone. Ma non era la prima volta: avevo già adoperato l’auto bomba per uccidere il giudice Rocco Chinnici e gli uomini della sua scorta. Sono responsabile del sequestro e della morte del piccolo Giuseppe di Matteo, che aveva tredici anni quando fu rapito e quindici quando fu ammazzato. Ho commesso e ordinato personalmente oltre centocinquanta delitti. Ancora oggi non riesco a ricordare tutti, uno per uno, i nomi di quelli che ho ucciso. Molti più di cento, di sicuro meno di duecento.”

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Giuseppe di Matteo era un ragazzino entusiasta della vita, niente a che vedere con la tristezza dei mafiosi e dei suoi terribili carnefici. Giuseppe amava l’equitazione, era la sua più grande passione e proprio in una giornata spensierata, dopo un allenamento, all’uscita dal maneggio, dei mafiosi si spacciarono per poliziotti, che gli dissero di volerlo portare dal padre che non vedeva da tempo perché collaboratore di giustizia. Agli occhi del piccolo, quegli uomini erano degli angeli, dalla felicità il cuore gli batteva all’impazzata, lui era felice, diceva “papà mio, amore mio”, da ciò che ci riferisce Gaspare Spatuzzo, che partecipò al sequestro, ma in realtà quegli uomini erano veri lupi.

Attraversata la porta del maneggio, Giuseppe non avrebbe più visto né il padre né altre persone, ma soltanto i volti dei suoi aguzzini. Il padre, chiamato anche “Mezzanasca”, prima di iniziare a collaborare con i magistrati era un affiliato di Cosa Nostra, ma dopo il suo arresto raccontò al magistrato Giuseppe Pignatone ciò che sapeva degli attentati mafiosi. Fu proprio questo a scatenare l’ira dei mafiosi e Giovanni Brusca ebbe il compito di rapire il figlio di Santino per convincerlo a rimangiarsi tutto.

Degli avvertimenti sono stati recapitati al nonno di Giuseppe con scritto “Il bambino c’è l’abbiamo noi, non andare dai carabinieri se tieni alla pelle di tuo nipote” un altro gli fu recapitata dopo avergli mostrato la foto del bambino con il giornale in mano: “Devi andare da tuo figlio e farci sapere che, se vuole salvare il bambino, deve ritirare le accuse fatte a quei personaggi, deve finire di fare tragedia.”

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Il piccolo Giuseppe venne spostato parecchie volte fino alle campagne palermitane, luogo del suo ultimo “carcere”. Durante il periodo di sequestro Giovanni Brusca venne condannato all’ergastolo e per risposta diede a Enzo Brusca, Vincenzo Chiodo e Giuseppe Monticciolo l’ordine di uccidere il ragazzino. Dopo 776 giorni di prigionia, Giuseppe non si accorse neanche che quello sarebbe stato il suo ultimo giorno di vita. Proprio uno dei killer, Vincenzo Chiodo, ha raccontato i dettagli macabri e orribili di come avvenne il delitto e di come, senza uno straccio di umanità, i tre come se nulla fosse, andarono a dormire tranquillamente.

“Io ho detto al bambino di mettersi in un angolo, cioè vicino al letto, quasi ai piedi del letto, con le braccia alzate e con la faccia al muro. Allora il bambino, per come io ho detto, si è messo faccia al muro. Io ci sono andato da dietro e ci ho messo la corda al collo. Tirandolo con uno sbalzo forte, me lo sono tirato indietro e l’ho appoggiato a terra. Enzo Brusca si è messo sopra le braccia inchiodandolo in questa maniera (incrocia le braccia) e Monticciolo si è messo sulle gambe del bambino per evitare che si muoveva.

Nel momento della aggressione che io ho buttato il bambino e Monticciolo si stava già avviando per tenere le gambe, gli dice ‘mi dispiace’ rivolto al bambino ‘tuo papà ha fatto il cornuto’ (…) il bambino non ha capito niente, perché non se l’aspettava, non si aspettava niente e poi il bambino ormai non era… come voglio dire, non aveva la reazione di un bambino, sembrava molle… anche se non ci mancava mangiare, non ci mancava niente, ma sicuramente la mancanza di libertà, il bambino diciamo era molto molle, era tenero, sembrava fatto di burro… cioè questo, il bambino penso non ha capito niente. ‘Sto morendo’, penso non l’abbia neanche capito.

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Il bambino ha fatto solo uno sbalzo di reazione, uno solo e lento, ha fatto solo questo e non si è mosso più, solo gli occhi, cioè girava gli occhi. (…) io ho spogliato il bambino (…) abbiamo versato l’acido nel fusto e abbiamo preso il bambino.

Io ho preso il bambino. Io l’ho preso per i piedi e Monticciolo e Brusca l’hanno preso per un braccio l’uno così l’abbiamo messo nell’acido e ce ne siamo andati sopra. (…) io ci sono andato giù, sono andato a vedere lì e del bambino c’era solo un pezzo di gamba e una parte della schiena, perché io ho cercato di mescolare e ho visto che c’era solo un pezzo di gamba… e una parte… però era un attimo perché sono andato… uscito perché lì dentro la puzza dell’acido era… cioè si soffocava lì dentro. Poi siamo andati tutti a dormire”. La narrazione comune vuole che Cosa Nostra non uccida donne e bambini.

Questo omicidio, così efferato, è la prova del contrario, qualora ce ne fosse bisogno. Le mafie non hanno nessun codice d’onore, anzi. E il piccolo Giuseppe morì “scannato” senza nessuna colpa e senza potersi difendere. Ma la sua più grande vittoria è il ricordo della sua vita che viene celebrata da ragazzi che, con il suo esempio, hanno capito quale violenza possono le mani mafiose. E quando ne debbano stare lontano.

Miriam Cintoli

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