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Cosa significa essere un inviato di guerra oggi

Ce lo racconta Fulvio Gorani, per anni inviato di guerra per la Rai, prima nell'ex Jugoslavia e poi in Iraq e in Medio Oriente

Un desiderio a volte morboso di conoscere ciรฒ che umanamente รจ diverso da noi, ma senza mai sentirsi al di sopra del pericolo. E’ questo il mestiere del cronista di guerra secondo Fulvio Gorani, per anni inviato Rai presso i luoghi di conflitto, prima nell’ex Jugoslavia, poi in Medio Oriente, Afghanistan, Iraq, Israele. Tutte esperienze diverse e difficili, trattandosi di paesi culturalmente e geograficamente molto diversi, ma che hanno insegnato a Fulvio l’importanza di non dare mai nulla per scontato, soprattutto tutte quelle cose che nel nostro quotidiano ci sembrano normali o addirittura banali, e che invece in alcuni luoghi del mondo mancano e rappresentano un ambito traguardo. Fulvio Gorani ci ha raccontato la sua esperienza di inviato di guerra, una testimonianza che ci aiuta a capire quello che stanno vivendo oggi i suoi colleghi impegnati in territori a rischio come la Siria e l’Iran.

  

Cosa ti ha portato a diventare un inviato di guerra?

Chi affronta il mestiere di giornalista รจ solitamente una persona curiosa. Io sono sempre nutrito interesse verso tutto ciรฒ che avveniva al di fuori del mio mondo. Nasco nel 1951 in una cittร , Trieste, che allโ€™epoca risentiva dellโ€™influenza jugoslava, con un sistema politico e sociale diverso dal nostro. Quando ho cominciato a lavorare in Rai mi sono occupato di cronaca locale, ma quando ho avuto la possibilitร  di occuparmi di ciรฒ che accadeva lontano da me nel 1989-90 ho iniziato a seguire la crisi nellโ€™ex-Jugoslavia, prima con il conflitto in Slovenia, poi con la guerra in Bosnia. Alla base di tutto cโ€™รจ un desiderio, quasi morboso, di capire e conoscere tutto quello che รจ umanamente diverso da noi.

 

Durante lโ€™attivitร  di cronista presso i luoghi di conflitto, รจ possibile scindere il lato umano da quello professionale?

La separazione netta รจ impossibile: prima di essere giornalisti siamo esseri umani, รจ impossibile non venir contaminato da ciรฒ che accade. Una certa dose di cinismo con il tempo ti porta ad avere un approccio piรน freddo nei confronti del nemico principale rappresentato dalla morte. Come cronista devi comunque sempre cercare di mantenere un minimo di sangue freddo che ti faccia vedere le cose con un poโ€™ di oggettivitร , unโ€™abitudine non semplice ma che si apprende con lโ€™esperienza. La paura รจ un sentimento utile, che consente di essere piรน prudente in merito a ciรฒ che fai, evitando cosรฌ errori spiacevoli o letali. Facendo questo lavoro, il grosso rischio รจ quello di sentirsi al di sopra del pericolo: quando si affronta una situazione difficile, non si deve mai dimenticare che ogni proiettile sparato non ha nessuna destinazione precisa, per cui la prudenza non รจ mai troppa.

  

Ci vuoi raccontare un aneddoto emblematico di ciรฒ che significa essere cronista nei luoghi dove si combatte una guerra?

Lโ€™inviato di guerra vive in condizioni estremamente difficili, senza lโ€™accesso ad alcuni servizi che i piรน durante il quotidiano danno per scontato. Alle difficoltร  di carattere pratico si somma il pericolo quotidiano dovuto al vivere a poca distanza da dove si sta tenendo un conflitto.

Nei luoghi di guerra mi ha sempre colpito la sofferenza di due categorie di persone: i bambini e gli anziani. Osservare i ragazzi piccoli in una condizione di sofferenza inevitabilmente ti turba, perchรฉ vedi negati gli elementi essenziali di sopravvivenza. Un episodio estremamente drammatico che posso raccontare riguarda la mia esperienza a Srebrenica dopo la liberazione dai serbi-bosniaci: la cittadina fu tristemente teatro nel luglio 1995 di un genocidio di oltre 8 000 musulmani bosniaci, per la maggioranza ragazzi e uomini, avvenuto durante la guerra in Bosnia ed Erzegovina. Dopo il conflitto riuscii ad entrare nella cittร  appena liberata, camminando lungo una strada interamente coperta da bossoli di proiettili. Ciรฒ che mi ha stupito รจ che appena siamo entrati in cittร  insieme ad altri colleghi, la gente che viveva da mesi nelle cantine per la paura del conflitto ha avuto il coraggio di uscire fuori perchรฉ aveva visto nellโ€™arrivo della stampa e della televisione la fine di un periodo di patimento e morte.

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