Sei qui: Home » Storie » L’Afganistan visto attraverso gli occhi dei bambini e delle donne

L’Afganistan visto attraverso gli occhi dei bambini e delle donne

Il racconto emozionante di Fulvio Gorani, giornalista e inviato di guerra per la Rai, ci fa fare scoprire l'Afganistan attraverso gli occhi dei bambini e delle donne

Vedendo le foto e i filmati che arrivano in questi giorni dall’Afghanistan, sono tornato indietro nel tempo, a quel 2002, quando, dopo l’attentato alle Torri Gemelle, gli americani avevano dichiarato guerra al terrorismo. In quei mesi, in quegli anni, avevo avuto sempre davanti a me un’immagine ripetuta all’infinito: gli occhi dei bambini, dei vecchi e delle donne. I bambini, appunto, quei piccoli che un video ripreso gli scorsi giorni all’Aeroporto internazionale di Kabul, ci mostra passare dalle mani delle madri a quelle, guantate, dei soldati inglesi per essere messi al sicuro all’interno dello scalo. Mi sono chiesto: dove finiranno? Chi sarà in grado di occuparsi di loro in mezzo alla confusione generale.

Afganistan, i Bambini

Ricordo che dopo la fine delle ostilità, come per magia, erano riapparsi nel cielo gli aquiloni. Erano stati da sempre uno dei giochi preferiti dei bambini anche se, spesso il farli volare non era un gioco ma una vera sfida tra bambi. Cospargevano di colla il filo e ci aggiungevano piccole scaglie di vetro. In questo modo le funicelle diventavano taglienti e riuscivano a recidere i cordini degli altri aquiloni. Vinceva chi restava alto nel cielo, così come ha ben descritto Khaled Hosseini del suo libro ‘Il cacciatore di aquiloni’. Una specie di infantile duello aereo.In uno sperduto villaggio dell’Afganistan riuscii ad acquistare da un rugosissimo anziano – magari, avrà avuto i miei anni di allora – un bell’aquilone rosso per pochi spiccioli di denaro afghano. Mi ricordo che, con molta circospezione, lui mi disse: ” Per farlo volare devi avere anche questo”. Aveva frugato con le mani nella sabbia e con aria trionfante aveva tirato fuori un rotolino di corda sottile. “E’ difficile da trovare, tienila con molta cura!”. Aveva dovuto seppellirlo per evitare che gli venisse requisito.Quando i ragazzini del paese mi videro con quello strano aggeggio tra le mani si misero a girarmi attorno riempiendomi di consigli per farlo volare, ma, nonostante l’aiuto del mio traduttore, non riuscii bene a capire. Vedevo solo i loro occhi sgranati, grandi fanali pieni di curiosità. Erano sicuramente sorpresi da me, uno strano tipo, vestito in un modo tantostrano, con quei capelli chiari così diversi da quelli che erano abituati a vedere, con in mano un gioco che non era il suo. Mi ero fermato a lungo a parlare con quei ragazzini, rendendomi conto di quanto godessero della ritrovata libertà. In fondo si trattava solo di poter far volare ancora un aquilone.Avevo incontrato gli stessi fanciulli in tutti quei luoghi dilaniati dalle guerre e ogni volta avevo percepito non solo la loro ingenuità ma soprattutto il desiderio di godere dei giochi con gli amici senza gli assurdi divieti dell’integralismo. Volavano nuovamente gli aquiloni e con questi tutta la bellezza, la semplicità della giovinezza.

Afganistan, le Donne

Quando arrivai a Kabul nel 2002, le donne sembravano non esistere. Sapevi che c’erano, nelle case, ma per strada non le vedevi. Ogni tanto incontravi una questuante nascosta sotto un burka azzurro mosso dal vento. Erano sempre donne molto anziane, talvolta aggressive. Dopo un po’ iniziai a vedere in giro donne con i burka colorati: rossi, gialli e verdi. Solo dopo un po di tempo, molto timidamente, qualche ragazza si decise ad uscire di casa solo con il velo, a viso scoperto. Non era affatto facile riprendere una vita più o meno normale dopo anni di clausura forzata. Il poter tornare a scuola credo sia stato il cambiamento più radicale e importante per le ragazze afghane così come il potersi radunare tra loro nei giardini delle città. Fu uno spettacolo bellissimo rivedere i giardini dell’Università di nuovo pieni di gioventù. Mi pareva quasi che qualcuno avesse rimosso la polvere e il grigiore dalla città e le sue strade. Autentici stuoli di ragazze sorridenti circolavano per Kabul, per Khandahar, per Jalalabad. Un gioventù allegra che riacquistava la gioia di vivere dopo tanto buio. Un fattore determinante oltre alla scuola fu la progressiva possibilità di tornare a lavorare. Ho potuto vedere che grazie al lavoro della Ambasciata Italiana e dell’allora Ambasciatore Ettore Sequi, erano stati aperti dei piccoli laboratori artigianali dedicati alle donne che, riappropriandosi della loro dignità, contribuivano al mantenimento delle loro famiglie. Ho potuto visitare alcuni di questi laboratori. Ce n’era uno in cui venivano assemblate delle piccole lampade ad energia solare, utilissime in un paese dove l’energia elettrica andava e veniva continuamente. In un’altro le ragazze lavoravano i lapislazzuli creando dei piccoli monili e soprammobili. Quando entravi, gli occhi delle ragazze erano curiosi e aperti anche se molte di loro di affrettavano a coprire il volto. Una di loro, più audace delle altre, volle a tutti costi regalarmi un minuscolo coltellino con il manico di lapislazzulo che aveva appena costruito e non ci fu verso di farle accettare del danaro. Lo conservo ancora.

C’era tanta speranza ed entusiasmo, dappertutto. La sensazione di aver riacquistato la vita, la libertà. Si percepiva nell’aria qualcosa dei nuovo, di inebriante. Solo la continua presenza delle tante pattuglie militari in giro per la città ricordava a tutti che il pericolo poteva essere ancora dietro l’angolo. Gli afghani desideravano soprattutto ricominciare a vivere anche se le macerie delle case bombardate, le mura crivellate di proiettili e i tanti invalidi che si trascinavano per le strade con le loro pesanti grucce di legno non consentivano di dimenticare quello che era successo. Mi ricordo una visita all’ambulatorio gestito da Alberto Cairo per la Croce Rossa Internazionale. Un’emozione fortissima e anche una soddisfazione constatare che l’opera di un italiano sia stata così ben organizzata. Alberto è un fisioterapista italiano che da anni vive e lavora a Kabul e in altri centri dell’Afghanistan. Non soltanto riesce a fornire le protesi a tutti quelli – e sono tanti – che ne hanno bisogno ma fornisce anche un apporto essenziale per la rieducazione degli invalidi. Ad alcuni di essi ha anche trovato un lavoroall’interno della struttura. Lavorava a Kabul anche sotto il regime talebano, ha continuato a farlo e spero riesca a non interrompere la sua preziosa missione. Ho sempre ammirato, di queste persone, la serenità, la fermezza e la convinzione. Una meravigliosa testardaggine ad andare comunque avanti, indifferenti a chi comanda in quel momento, con un unico fine: aiutare il prossimo.

Con la fine delle ostilità, molti locali hanno riaperto i battenti, bar, ristoranti e anche una pizzeria. Tutti erano contenti di poter uscire la sera senza il timore di essere arrestati. Mi ricordo di un piccolo negozio in cui, con dei colleghi, abbiamo recuperato un cartone di lattine di birra, arrivato chissà da dove, che ha contribuito non poco a rallegrare le nostre serate all’Hotel Intercontinental. Dietro l’albergo c’era anche un campo da tennis in terra battuta, pieno di buche con una rete rattoppata in più punti. E’ stato lì che con un collega inglese, dopo essere riusciti a trovare due vecchissime racchette di legno e delle palline sgonfie, abbiamo improvvisato un match di tennis veramente estemporaneo. Ci pensava ogni tanto una tempesta di sabbia a farci tornare con i piedi per terra. Due o tre giorni praticamente chiusi in hotel, difficilissimo spostarsi e lavorare, la polvere che riusciva a passare anche attraverso le finestre chiuse e che rendeva difficile anche solo respirare. In questi casi la nostra preoccupazione maggiore di inviati della televisione, era che le attrezzature tecniche – telecamere, computer, salette di montaggio e telefoni satellitari – venissero messe fuori gioco. Dovevamo proteggerle in tutti i modi. Ma anche questo era l’Afghanistan e questo nuovo inizio faceva dimenticare ogni contrarietà.

Afganistan, Oggi

Sono passati quasi vent’anni di Afganistan, sono stati spesi tanti soldi. Sì è davvero cercato di fare di tutto per far rinascere un popolo, una nazione? Non ho la presunzione di affermare che l’intervento americano fosse necessario. Alla luce di quello che sta succedendo oggi è stato probabilmente insufficiente, se non inutile. Lo stabilirà la storia. Forse ci si è dimenticati che l’Afghanistan non riesce ad essere una vera e propria nazione, diviso com’è tra fazioni ed etnie. Di sicuro non si è riusciti ad eliminare la corruzione accettando governanti corruttibili, così come non è stata eliminata o almeno ridimensionata la coltivazione dell’oppio, inesauribile fonte di guadagno soprattutto dei talebani. Ci hanno provato in tanti, finanziando la riconversione delle colture. Senza successo.

Quando Gino Strada mi raccontava delle tante serate passate assieme a Shah Massoud, quando il Leone del Panshir poteva rappresentare una speranza per il popolo afghano, proprio durante quelle cene, loro due discutevano della difficoltà di mettere assieme i Pashtun con gli Hazara o i Tajiki e di quanto fosse necessario mettere un freno al commercio dell’oppio. Mi figuravo quei momenti e vedevo passare davanti ai miei occhi qualcosa che mi sembrava quasi epico. Oggi devo arrendermi ad una realtà che vedo orribile. Temo che i talebani siano gli stessi che gli americani e gli Occidentali credevano di aver sconfitto. Probabilmente non se ne sono mai andati dall’Afghanistan ma si sono nascosti aspettando tempi più propizi per la riconquista del potere. Hanno approfittato non solo del ritiro delle forze della Coalizione ma soprattutto dell’incapacità e della corruttibilità dellaclasse politica afghana e dell’inconsistenza di un esercito nel quale i soldati obbedisconodi più ai loro capiclan che ai generali. Ho amato molto l’Afganistan, vivo con enorme dolore gli avvenimenti di questi giorni e spero veramente di sbagliare.

Fulvio Gorani

© Riproduzione Riservata